CRONACHE DELL’ALTRO MONDO (2)

[Gianfranco Ferraro, ITA, 7.10.16]

Raul Mateos Castell è appena riuscito a vendermi due dei tre libri che vende ogni giorno, in media, dal suo bancone pieno zeppo di volumi, sistemato da quarantadue anni in un certo angolo di un certo dipartimento della prestigiosa università. È da quarantadue anni, da quando Raul ha cioè definitivamente chiuso i conti con la vecchia editrice, la “Temas de Ciências humanas”, da lui fondata negli anni ’60 dopo aver definitivamente abbandonato la lotta armata, che Raul vende libri nel bancone che è riuscito a ricavarsi in questo angolo della prestigiosa università. Gli amici, per Raul, si dividono in due categorie: gli amici “attivi” e gli amici “passivi”. I primi sono quelli che, ogni volta che qualcuno ai piani alti ha provato a farlo sloggiare dal suo angolo, si sono dati da fare affinché egli potesse continuare a stare lì dove stava, i secondi sono quelli che, per quanto “spinti da sincera compassione” o comunque “sinceramente interessati” al lavoro di Raul, hanno però evitato con altrettanto grande accortezza, per quarantadue anni, di muovere un solo dito perché Raul potesse rimanere nel suo angolo. In quarantadue anni Raul ha così potuto conoscere, e dividere tra amici attivi e amici passivi, quasi tutti i docenti del dipartimento della prestigiosa università. Ma da qualche anno qualcosa è cambiato: i nuovi professori non si avvicinano più al suo bancone pieno zeppo di libri, e gli studenti, che per entrare nella prestigiosa università devono da sempre superare un difficilissimo esame di accesso preparato in una delle costosissime scuole private della più grande Repubblica Federale dell’America latina, lo guardano di anno in anno sempre più sospettosi, quando non del tutto indifferenti, fino a comprare, oggi, quando va bene, “non più di due-tre libri al giorno”. E non è stato in fondo difficile, per me, scegliere i due libri del giorno di Raul: il primo era il libro che Raul stava leggendo, “Osare lottare”, titolo un po’ inquietante se tradotto in italiano, ma che racconta le memorie di un guerrigliero degli anni ’70; il secondo me lo ha scelto invece Raul stesso, tirandolo fuori dal suo bancone zeppo di volumi lì accanto, ed è la memoria di uno degli assassini di regime che, dice la quarta di copertina, “non compare in nessuna delle liste di agenti torturatori, redatte dalle organizzazioni di sinistra” dell’epoca, e questo per il semplice motivo che “egli in verità”, continua la quarta di copertina, “non ha mai torturato nessuno: la sua missione era ammazzare”. Il titolo del libro, che Raul mi ha messo tra le mani, è “Memorie di una guerra sporca”. Chissà che a qualche vecchietto italiano ormai in pensione, mi chiedo mentre guardo il libro che Raul mi ha messo tra le mani, non venga in mente tra qualche anno, per quel rimorso affilato che ogni tanto colpisce al cuore i vecchi, e di cui provano a liberarsi quasi che liberarsi dai rimorsi coincida col liberarsi dalla morte, chissà che tra qualche decina d’anni insomma, a un tale vecchio poliziotto italiano ormai in pensione, non venga in mente di scrivere le sue “memorie di una guerra sporca” citando un famoso caso di comprovata epilessia. Ma mentre me lo chiedo penso che sono qui perché volevo tornare proprio da lui, da Raul, semplicemente per salutarlo, lui e il suo bancone pieno zeppo di volumi, sistemato da quarantadue anni in un certo angolo di un certo dipartimento della prestigiosa università, prima di lasciarmi alle spalle, definitivamente, São Paulo.
Ci sono delle volte che torniamo da una persona senza sapere perché. Molto spesso, la prima volta, c’è stato appena un saluto. Forse neanche. Una parola messa lì che non ci è sembrata messa a caso, dentro la montagna di parole messe a caso che ingurgitiamo impunemente ogni giorno. Un pensiero traverso, laterale. Incontriamo in una vita decine di migliaia di persone. Ci bastano. Se non ci bastassero impazziremmo, forse. Di rado però qualche volto, questo mi dico, e dev’essere proprio questo, la nostalgia di un volto, a depositarsi dentro un qualche angolo nascosto della nostra mente distratta impegnata a sbrigare gli affari del giorno, dev’essere questa nostalgia che a un certo punto riemerge e diventa, in alcuni casi, l’urgenza di un ritorno.
Sono tornato da Raul dopo averlo visto, di sfuggita, il mio primo giorno a São Paulo, dietro il suo bancone pieno zeppo di volumi, in quel certo angolo di quel certo dipartimento della prestigiosa università. Mi avevano colpito la sua barba bianca, quei capelli lunghi ficcati dentro il cappello di stoffa, gli occhiali grandi. Me lo avevano indicato, “senti che storia”, Raul Mateos Castell, nato in Catalogna settantasei anni fa, figlio di un ingegnere chimico scappato coi genitori a Tenerife, nelle Canarie, in mezzo all’Oceano, dopo la definitiva vittoria delle falangi di Franco contro le brigate anarchiche che avevano collettivizzato la vecchia fabbrica dove il padre lavorava, il padre figlio unico, liberal-socialista diventato uomo di punta della debole macchina da guerra del POUM, e quasi sul punto di finire fucilato a Bilbao quando, imbracciate le armi, si ritrova in mezzo all’esercito basco in rotta, prigioniero delle falangi. E lì viene salvato, Raul fa due più due, da qualche pezzo della famiglia che stava “dall’altra parte”, “com’è capitato anche a voi in Italia”, e “anche per questo si dice civile”, la guerra, dice Raul. Perché divide le famiglie, gli affetti. Per questo il padre dev’essersi salvato, riflette, “qualche pezzo di famiglia…”, fascista, penso io, che lo ha salvato. Ma non ce la fa a rimanere in una Spagna ormai regno di Franco, il padre ingegnere, e per questo prende genitori e figlioletto appena nato, Raul, con la sorella di qualche anno più grande e scappa alle Canarie, impiegandosi da qualche parte, senza dare troppo nell’occhio. Per poi scappare ancora, nel ’55, quando nuovi venti fanno presagire l’arrivo di un’altra guerra, ancora più pesante, più tremenda, che non arriverà. In Brasile, questa volta. Anche se lui è tornato, poi, da grande, “diverse volte”, in Catalogna, Raul, “anche se ogni volta il ritorno è più soffuso, le cose ti prendono meno”.
Dev’essere per questo che sono ritornato, anche io, lì dove lo avevo lasciato, per salutarlo, Raul, magari per avere quell’autobiografia che un editore gli ha chiesto e che lui ha scritto “senza perderci troppo tempo”, dice Raul, senza crederci troppo nel dirmelo, solo per darmi ad intendere che non è ancora un uomo di memorie, che ha ancora da fare. Come per esempio costruire ancora, pezzo dopo pezzo, la sua casa su a São Roque, “in montagna”, a trentotto chilometri da São Paulo, “fila di mattoni dopo fila di mattoni”, questo mi dice Raul, schermendosi. Dev’essere per questo che sono tornato, per farmi raccontare questa storia, o anche solo per salutarlo, Raul, per farmi dire di quella volta che finì in prigione, da guerrigliero, di come nel ’62 sia diventato maoista. “No, non maoista”, perché non gli piacevano, e non gli sono mai piaciuti, a Raul, “i grandi duci”, “i grandi volti”, come non gli sono mai piaciute le “assemblee a mezzo di assemblee” in cui “si parte in dieci e si rimane in cinque” perché non si è fatto nulla, come non gli sono mai piaciute le fedi, a Raul, “di qualsiasi tipo”, ma meno ancora “quelle che ti portano a non stare dove accadono le cose”, dice Raul, come quella volta che la gente era in piazza, finalmente, e i guerriglieri preferirono starsene ritirati in buon ordine “perché bisogna difendere i quadri”, questo dicevano i comandanti, “e a che servono i quadri”, mi dice Raul, “a dipingerli?”, e allora lasciò tutti e scese in piazza anche lui, Raul, abbandonando la guerriglia, i gruppi, i gruppetti, e fondò la sua “editora”, con la compagna Terezinha, sua moglie. “Bibi”, mi sussurra Raul, come la chiamava la famiglia di origine ungherese. “Che bello” mi dice Raul, mentre guarda la sua catasta di libri accumulata in quel certo angolo della prestigiosa università, “che bello questo rimescolamento”, “bianchi, indi, neri, gialli…”, questo rimescolamento del Brasile, questo rimescolamento di razze che è il Brasile, e se la prende, Raul, e mi lascia un po’ perplesso, quando se la prende coi giovani neri che fanno della negritudine la loro identità, la loro battaglia di oggi, che se “ora ci mettiamo a fare il test di chi è più nero e chi è più bianco”, “qui in Brasile non ne usciamo più”, dice Raul, “la gente ha chiavato con chi voleva” ed “è la classe e non la pelle” a fare la differenza, questo dice Raul.
E mentre lo dice penso che è vero, in fondo, anche se però me lo deve spiegare, anche Raul, perché è nera, molto spesso nera, la donna che pulisce i cessi nella prestigiosa università: la prestigiosa università che ha le quote per i neri, proprio contro il razzismo, e così accade pure che il nero più ricco entra mentre il bianco povero no, o che il fratello nero entra e la sorella un po’ mulatta no, e mi sembra anche questo, detto francamente, una gran cazzata, penso tra me e me, anche se a Raul non riesco a darla vinta, perché è quasi sempre nera “la nera che pulisce i cessi”, al nero come al bianco. Non riesco a dargliela vinta, anche se un po’ l’ho capito il compagno Raul, che continua a separare il mondo in ricchi e poveri e in amici attivi e passivi, Raul che arriva a quindici anni a São Paulo dopo aver giocato per le spiagge delle Canarie, Raul che arriva al porto di Santos, dove arrivavano tutti gli emigrati “perché non si arrivava mica con l’aereo”, questo dice Raul, che ci volevano quattordici giorni di mare, da Tenerife a Santos, e che lui se li è fatti tutti, Raul Mateos Castell, prima di arrivare a Santos, questo mi dico, prima di fare sociologia e scienze politiche, prima di entrare nella guerriglia, prima di entrare e uscire dal Partito Comunista “illegale ma tollerato” durante la dittatura, prima di entrare e uscire dalle assemblee di tutti i gruppi e gruppetti della sinistra radicale brasiliana e sudamericana, prima di essere troschista e maoista, prima di fondare la editora “Temas de Ciências humanas”, che pubblicava la famosa rivista di cui mi regala quattro copie, Raul, “in cui pubblicavano le più belle teste pensanti del Brasile dell’epoca”, mi dicono gli amici, prima di aprire e chiudere sette librerie “a due passi da Praça da Republica”, mi dice Raul, prima di chiuderle, soprattutto, visto che nell’ultima era rimasta alla fine solo Bibi ad accogliere l’unico sperduto cliente del giorno, prima di venire qui a vendere i suoi libri, prima di mettere su il suo bancone pieno zeppo di volumi, quarantadue anni fa, in quel certo angolo di quella certa prestigiosa università, “che all’inizio doveva essere solo una testa di ponte per invitare studenti e professori a frequentare le librerie del centro”, questo mi dice Raul. “Prima che morisse Terezinha”, nel 2007, nove anni fa, questo mi sussurra Raul, “anche se glielo avevo detto che fumare faceva male”, questo dice Raul, ma questo non importa, aggiunge, “perché gli uomini non imparano dall’esperienza”, e perché in fondo Bibi-Terezinha, la “compagna Bibi” comunque è morta, “di cancro”, mi dice Raul, “anche se la gente ha paura di dire queste cose”, di dire che “gli uomini sono parte della geologia, della natura” e che quindi nascono e muoiono, questo mi dice Raul, il compagno Raul, allontanandosi dal suo bancone pieno zeppo di volumi rivoluzionari, in quel certo angolo della prestigiosa università, per dirmi, Raul, che anche tra i guerriglieri, quella volta nella foresta, ci fu qualcuno, nel buio più fitto, che invece di fermarsi a pensare un momento ebbe la geniale idea che si potevano prendere le lucciole, “proprio così, le lucciole”, e metterle dentro un sacchetto di plastica, e farsi luce con quelle, “senza pensare che se le metti dentro un sacchetto di plastica le lucciole muoiono”, “per lo meno di solito”, questo dice Raul, e abbassa la testa, mentre qualche studente si avvicina e io glielo indico, e gli chiedo se ha raccontato la sua storia alle due figlie, o al nipote più grande, e lui mi risponde che non ne hanno voglia, dice Raul, “anche giustamente”, e che la vecchiaia gli fa venire voglia “di essere visitato”, “ma che non dev’essere un obbligo, non obbligo mai nessuno, e men che meno le mie figlie, a farmi visita”, questo dice Raul, anche se io so che pensa ancora a quelle lucine dentro la plastica, in mezzo alla foresta, e non alla figlia che produce birra artigianale da qualche parte “nell’interno”, questo pensa Raul, o meglio non pensa, e non guarda più neanche gli studenti che non comprano, i giovani professori che non si avvicinano più al vecchio bancone pieno zeppo di volumi in quel certo angolo della prestigiosa università, Raul, che forse non guarda più neanche me, venuto “apposta per salutarlo”, come gli ho detto quando l’ho visto, seduto sulla vecchia sedia di pelle in fondo, “Senhor Raul?”, gli ho detto, io che forse ora farei bene ad andarmene, ora che si è fatto tardi e che in nessuna maniera, questo è il punto, posso contestare il fatto che una lucciola chiusa in un sacchetto appunto muore, come il vecchio Raul Mateos Castell dev’essersi soffermato a pensare, dopo quarantadue anni dietro al vecchio bancone in un angolo della più prestigiosa università dell’America latina: che anzi neanche l’università è in fondo più un’eccezione a questa regola, anzi, proprio questo deve aver pensato Raul in quei pochi momenti prima che io gli stringessi velocemente la mano, che proprio l’università conferma che una lucciola dentro un sacchetto muore, questo deve aver pensato, e questo ho pensato anche io, indicandogli gli studenti attratti al bancone dalla nostra discussione, prima di stringergli forte la mano, a Raul, prima che lui si riprendesse e me la stringesse a mia volta, prima di salutarci come si salutavano una volta, in un tempo che non so e non saprò, i vecchi compagni, prima di dire, il vecchio Raul, che se una volta ho voglia di tornare, “a São Roque c’è sempre spazio per você”, prima di ringraziarlo, e di dirgli che non tornerò forse mai più, e che quindi forse non ci vedremo mai più, io e lui, Raul, perché la vita, a uno di noi due, ci ammazzerà prima, prima che io imboccassi il corridoio guardandolo ancora, prima che lui mi richiamasse, “Moço!”, “Ragazzo!”, da lontano, per darmi ancora un libro, uno solo, il terzo della giornata di Raul, questo deve aver pensato, Raul, rincorrendomi, che dentro un sacchetto una lucciola muore, questo spero, almeno, Raul, che domani torna come sempre ogni giorno dopo quarantadue anni al suo bancone pieno zeppo di volumi in un angolo della prestigiosa università, questo deve aver pensato, o almeno questo io ora penso, mentre lo guardo, Raul, ancora giovane, circondato dai libri, Raul Mateos Castell, questo deve aver pensato, prima di essere inghiottito dal suo angolo, come ha perso oggi il suo tempo, come lo ha perso per la prima volta dopo chissà quanto, questo avrà pensato, lasciando le lucciole ad affogare dentro quel lontano ricordo, a come è ritornato a perdere il suo tempo di nuovo, insieme allo sconosciuto italiano, che è tornato apposta, apposta a perdere il suo tempo con lui, questo deve aver pensato Raul Mateos Castell, prima di essere inghiottito dai muri della prestigiosa università, prima che lo fossi io, a mia volta, dalla città, dopo essere tornato a salutarlo, oggi, prima di lasciare definitivamente São Paulo.

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