Movimenti indisciplinati

Sandro Mezzadra e Maurizio Ricciardi (a cura di), Movimenti indisciplinati. Migrazioni, migranti e discipline scientifiche, Ombre corte, Verona, 2013.

di Alessandra Maggi [ITA_08.05.2017]

MIGRAZIONI

«E poi ascoltatevi un po’, mentre vi servite di questa parola, integrazione. Questa parola debole. Come si fa ad essere così maldestri? Guardate com’è rivelatrice di tutta la malafede che c’è in voi. Chiederci di integrarci dopo che siamo qui da due o addirittura da quattro generazioni è una vera presa per il culo. Voi credete che integrandoci riuscirete a domare le periferie, a ridurre la criminalità? Detto fra noi, i francesi amano questa parola, integrazione, perché fa’ credere loro di essere in grado di addomesticarci. Ma noi non siamo animali selvaggi. Lo sapete? … voi avete invertito i ruoli. Non sta a noi fare lo sforzo. È troppo tempo che ci facciamo il culo a spaccare le vostre vecchie strade con il martello pneumatico, ad assemblare i binari dei vostri treni con la fiamma ossidrica o a posare sul cemento le nuove piastrelle del vostro bagno. Non ci integreremo, perché questa parola è ripugnante. Sa di campo di correzione. […] Noi non aspettiamo con finta trepidazione che voi ci accettiate. La vostra integrazione ci fa ridere. È una parola tremenda. Non ci interessa. Noi non ci dobbiamo integrare. Non ci integreremo. Aspetteremo che voi reagiate, che ci vediate come chiunque altro, come uno straniero qualunque, come un francese qualunque.»

(Ahmed Djouder, Disintegrati. Storia corale di una generazione di immigrati, il Saggiatore, Milano.)

Introduzione

Il lavoro curato da Sandro Mezzadra e Maurizio Ricciardi prende spunto da una critica corale all’idea di “oggettività” e “neutralità” della scienza delle migrazioni, assumendo al contrario una prospettiva del fenomeno migratorio come “fatto sociale totale” (Sayad, La doppia assenza. Dalle illusioni dell’emigrato alle sofferenze dell’immigrato, 1999). La definizione di Sayad, più volte richiamata quale punto originario nelle riflessioni che si intrecciano in questo lavoro, diviene paradigma per meglio definire il carattere delle “migrazioni”, per mostrare come sia impossibile una sintesi degli elementi che le identificano, nel momento in cui i movimenti stessi – che pure le caratterizzano – attraversano tanto la linea del colore, quanto quella del genere, e infine quella di classe.

I fenomeni migratori non riguardano solo Europa e Stati Uniti, ma il mondo nella sua totalità.

Così, di fronte a una simile realtà, trova spazio lo studio di nuovi processi di governo della cittadinanza e della migrazione, i quali combinano diversi gradi di inclusione ed esclusione.

Le migrazioni, e con esse le lotte migranti, sono un fenomeno che sfida lo stato democratico, attraversato da quel “paradosso liberale” che pretende di conciliare libertà economica e diritti; allo stesso modo esse chiedono necessariamente risposte politiche e un insieme di modalità eterogenee di “inclusione differenziale” (Mezzadra, Neilson, Borderscapes of Differential Inclusion. Subjectivity and Struggles on the Threshold of Justice’s Excess, 2012).

Lo scenario con cui oggi ci confrontiamo (ovvero la separazione tra migrante regolare e irregolare), è quello di un sistema in cui la figura del migrante è costruita sul modello della vittima, mutandolo così in un soggetto mancato e bisognoso di protezione. Tale neutralizzazione politica fa sì che il migrante venga ridotto a un essere indefinito in una marea di esseri umani in movimento, ai quali sarà concessa soltanto un’accoglienza di base, una remota possibilità di regolarizzazione e una possibilità di integrazione (intesa come ‘addomesticamento’) per la quale se non vi sarà una passiva accettazione della propria condizione di subalternità, vi sarà il ricatto della deportabilità.

Così non trovando davanti a sé la “possibilità generalizzata di un inclusione societaria” (Cvajner, Sciortino, Theorizing Irregular Migration: The control of Spatial Mobility in Differentiated Societies 2012) si annichiliscono i sogni, le speranze, i bisogni e le aspirazioni dei soggetti migranti, la loro voglia di riscatto, l’investimento fatto dal gruppo di partenza, cosicché il fallimento del soggetto sarà percepito come un fallimento dell’intero gruppo di provenienza.

In secondo luogo, la condizione di crescente razzismo istituzionale determina una forma pubblica di esclusione, tuttavia non da questo o da quel diritto, ma dalla possibilità di essere considerati qualcosa di diverso da ‘forza lavoro’. Essere migranti significa disporre dello spazio d’azione destinato a lavori duri e mal pagati, disporre dei quadranti di città loro assegnati, gareggiare nella conquista della cittadinanza a punti, in un sistema in cui la cittadinanza stessa è usata come strumento per gerarchizzare le possibilità di accesso al welfare, a più ampi diritti e al mercato del lavoro. La condizione della migrazione legale è un dispositivo destinato a regolare i movimenti internazionali di forza lavoro, con lo specifico obiettivo di “aiutare a tenere i poveri al loro posto” (Hindess, Divide and Rule: The International Character of Modern Citizenship, 1998). Infatti è fondamentale capire che «I conflitti dei migranti devono perciò scontrarsi con una specifica configurazione del politico che si istituzionalizza in un determinato territorio chiuso in base a criteri di appartenenza tassativi e a gerarchie implicite fondate su linee di classe, colore e genere». (p. 21)

Colore

Il problema dell’inclusione sociale del corpo migrante muove dallo scontro che si realizza tra la società che accoglie e i soggetti che provano a entrarvi, meccanismo che incide sull’organizzazione sociale del gruppo e sul suo sistema di relazioni. Il fenomeno migratorio, con il suo carattere irriducibilmente indisciplinato, ha minato alla base lo stato nazionale e le prassi democratiche che al suo interno si sono sviluppate. Lo «stato, come ha evidenziato Gellner, sulla scia delle celebri tesi di Weber, esercitava una triplice sovranità: militare, economica e culturale» (p.138). Ed è proprio rispetto all’ultima sovranità che le migrazioni sono in grado di generare una crisi, mettendo in discussione quell’artificiale idea che ciascuna nazione abbia una forma di identità collettiva, nella quale sia possibile ridurre tutte le volontà in una sola, al fine di realizzare uno straordinario collante dell’unità politica. Per decenni la politica si è rifiutata di fare i conti con le conseguenze sociali che le migrazioni portavano con sé, continuando a muoversi in base alla convinzione che l’ordine politico e sociale dovesse continuare a incentrarsi sullo stato nazionale. Sovente ci scontriamo con proclami di conclamato attacco ai nostri valori, oppure con appelli a mantenere entro i nostri confini una popolazione selezionata, all’interno dei quali gli unici che hanno diritto di entrare, ed eventualmente rimanere, sono coloro che rapidamente e silenziosamente sapranno acquisire la nostra virtù civica, e allo stesso modo sapranno accettare la loro collocazione sociale.

Come sostenuto da Emilio Santoro nel suo saggio Democrazia, migrazioni e società multiculturali, il pluralismo identitario che oggi caratterizza le società di arrivo rende complessa la sopravvivenza dei sistemi consociativi, in quanto «non sono stati costruiti per essere neutrali rispetto a radicali differenze culturali» (p.151). Questa condizione di conflitto culturale genera inevitabilmente una retorica logora, la stessa di chi, negando l’dea di razza in continuità con l’antirazzismo dominante, tende tuttavia a negare un’identità al soggetto migrante. «Per antirazzismo dominante intendiamo una pratica teorica e politica che, al di là della molteplicità di orientamenti, appare unificata da una strategia comune: la disseminazione nel tessuto sociale di un “progetto educativo” volto a espungere il significante di “razza” dal dibattito pubblico in quanto nozione scientificamente infondata». (p. 167)

Questa strategia antirazzista ha però portato a un razzismo senza razze. Tuttavia occorre qui assumere una prospettiva diametralmente opposta: la nozione di razializzazione come chiave di lettura essenziale dei processi migratori e post-migratori in Europa.

È sempre più difficile affrontare gli studi sulle migrazioni e il razzismo «senza fare riferimento a categorie come razzializzazione o “race-relations”, sia in quanto dispositivi di sfruttamento e gerarchizzazione della cittadinanza, sia in quanto catalizzatori di nuove pratiche teoriche, politiche e culturali di resistenza antirazzista e anticapitalista. […] Prendendo come punto di partenza quanto sostiene Frantz Fanon (1994) sui processi di razializzazione ciò che si vuole sottolineare è proprio il contrario: anche se le razze non esistono, ovvero non si tratta che di mere rappresentazioni o costruzioni ideologiche-culturali finalizzate al dominio dei gruppi inferiorizzati, e nonostante la definitiva sconfitta e delegittimazione scientifica dell’idea di razza avvenuta con la fine della Seconda guerra mondiale, siamo ancora alle prese con gli effetti simbolici, psicologici e materiali sul tessuto sociale della sua secolare e tragica storia» (p. 169)

Appare a questo punto necessario interrogarsi su quale sia l’eredità del passato coloniale che oggi influenza i processi migratori, mettendo in luce in che modo capitalismo e razzismo appaiono oggi talmente intrecciati da rendere praticamente impossibile pensare l’uno senza l’altro.

Sappiamo che il razzismo ha sempre trovato terreno fertile nelle fasi di crisi costitutive della Modernità, ma ridurre tale fenomeno a un effetto negativo, manipolatorio e mistificante equivarrebbe a negare al fenomeno stesso una qualsiasi specificità storica e politica: «Il razzismo contemporaneo non è il frutto di una “banale menzogna politica”, l’effetto di una “strumentalizzazione meramente ideologica”; il razzismo contemporaneo è innanzitutto “violenza e dominio materiale” (Fanon, Scritti politici. Per la rivoluzione africana 1964), una specifica “tecnologia di governo” delle società che, come spiega Foucault, affonda le radici nella costituzione dei “meccanismi del bio-potere moderno”». (p.189)

Le cittadinanze post-coloniali delineano quindi uno spazio di lotta, in cui i migranti scelgono di non essere più solo oggetto dei loro colonizzatori, ma scelgono di diventare soggetto che prosegue nella lotta anticolonialista, anche se con forme diverse. Questa volta lo scontro si accende nel territorio e sul terreno degli stessi ex colonizzatori, svelando quindi l’inattualità dell’idea di un mondo socialmente e spazialmente diviso a scomparti da una rigida e gerarchica linea di colore.

Classe.

«È la deportabilità e non la deportazione in sé del lavoro migrante a renderlo una merce diversamente disponibile». (De Genova, Working the Boundaries. Race, Space and “illegality” in Mexican Chicago, 2005)

Perché i paesi occidentali adottano politiche restrittive sull’immigrazione e poi non le applicano? In Italia vivono stabilmente cinque milioni di stranieri: molti di loro, residenti da più di cinque anni, sono ormai di fatto nostri concittadini, perché contribuiscono alla vita sociale, economica e culturale del nostro paese. Più di un milione di italiani hanno ‘origini straniere’, cioè hanno acquisito la cittadinanza dopo un lungo soggiorno nel nostro paese. Più di 800mila ‘stranieri’ sono in realtà nati e cresciuti in Italia: non sono italiani solo per una legge, che impone ai bambini la cittadinanza dei genitori. Tutto questo significa che, nel nostro paese, una persona su dieci ha – come si dice in gergo – un ‘background migratorio’: è nata o vive stabilmente qui, è italiana di fatto o di diritto, ma la sua presenza nel nostro paese ha a che fare più o meno con i flussi migratori dell’ultimo trentennio. A questi numeri se ne aggiungono altri, sono stranieri presenti sul nostro territorio ma cosiddetti irregolari, dai clandestini agli overstairs, fino ai richiedenti asilo, che in questa congiuntura storica hanno una remotissima possibilità di vedere riconosciuta qualche forma di protezione, salvo provengano da paesi particolarmente in crisi come la Siria.

Nonostante simili dati e distinzioni di figure, e nonostante la legislazione in materia di immigrazione, è impossibile non notare da subito come l’irregolarità non sia una scelta del migrante privo di volontà di assoggettarsi al nostro sistema normativo, ma è – in qualche modo – una tappa obbligata della propria esperienza migratoria, qualora non sia addirittura riferibile alla totalità della propria esperienza.

Torniamo ora al quesito di partenza: come mai i paesi Nord-occidentali hanno deciso di adottare politiche proibizionistiche in materia di immigrazione, non avendo poi cura che queste trovino un’applicazione rigida e severa? Senza voler ridurre i vari legislatori a un’unica volontà e senza voler banalizzare la nostra argomentazione, è molto interessante riflettere sulla citazione di De Genova riportata all’inizio di questo paragrafo. La deportabilità insieme alla necessità di salario è la doppia spada di Damocle che pende sulla vita dei migranti, funzionale a mantenerli nelle classi subalterne, ad accettare i lavori più faticosi e mal pagati, senza potersi in qualche modo opporre, pena la deportazione.

Ma come è possibile per un migrante riuscire a costruirsi un futuro pregno di quella virtù civica che vogliamo imporgli, carico di integrazione, quando quello che gli spetta è la lotta quotidiana per i documenti e la continua scelta tra lavoro illegale, sfruttamento e criminalità?

È interessante a questo proposito la distinzione che ci propone Alvise Sbraccia nel suo saggio Immigrazione e criminalità: «La produzione stereotipica dell’immigrato funzionale (lavoratore indispensabile, onesto, docile, motivato all’integrazione sociale) contrapposto all’immigrato disfunzionale (predatore opportunista e irriducibile alle strategie di assimilazione sociale) risulta allora la centralità del nesso tra clandestinità e criminalità». (p.71)

Tale distinzione parrebbe inesistente nella realtà: è più lodevole il ragazzo senegalese che raccoglie pomodori nei campi a rischio della sua stessa salute, del ragazzo del Bangladesh che vende le rose, o del migrante tunisino che vende piccole dosi di hashish? Volendo apertamente evocare quelli che sono gli stereotipi che profilano l’immaginario comune, sarebbe il caso di riflettere immediatamente sul fatto che in nessuna delle tre condizioni c’è qualcosa di socialmente accettabile; siamo di fronte a tre forme di sfruttamento gravi, volte a ridurre la volontà della persona e a umiliarla. Non per questo però possiamo assumere un atteggiamento paternalista o pietistico verso tali persone, con la volontà di riportarle sulla retta via, infatti non sono altro che esseri umani, i quali combattono ogni giorno per la loro vita e solo per questo mantengono alta la loro dignità.

Dal punto di vista analitico della sociologia urbana notiamo come intere zone di città vengano ripopolate su base etnica, creando periferie, ghetti o quartieri ad alta densità di marginalità, all’interno delle quali le forze di polizia sono presenti non per ripristinare la legalità delle aree segregate, bensì per presidiarne i confini. Si vuole quindi «concentrare una parte degli illegalismi in uno spazio definito, controllabile (gestione del disordine) sempre funzionale alla necessità di produrre in tempi rapidissimi riscontri statistici sulle attività di contrasto alla criminalità» (p. 88).

A questo proposito il «divenire urbano delle migrazioni» (p. 93) implica un continuo rinnovamento della costruzione urbana, creando aree con un’altissima possibilità di conflitto e sostanzialmente in “disordine”, sottoposte costantemente a tensioni. Sotto i nostri occhi si verificano rimodellamenti delle economie delle città, nuove stratificazioni sociali, con fenomeni di polarizzazione e pauperizzazione, e conseguente modifica della distribuzione delle popolazioni nello spazio urbano.

In questo contesto qualsiasi forma di conflitto trova solo il potere giudiziario davanti a sé, come principale canale di proceduralizzazione del conflitto, l’amministrazione e la politica si sottraggono infatti a questo tipo di dialogo, lasciando tutto alla gestione degli apparati di polizia, ignorando le questioni sociali e riducendole a mere questioni di ordine pubblico e decoro. Lasciando quindi cittadini e migranti alle prese con una «frammentazione delle città, un rimescolamento generale degli abitanti che altera le vecchie partizioni, creando problemi e conflitti inediti». (p. 94) Quella che Sayad ha definito giustamente la “doppia assenza” dei migranti è capovolta dai movimenti migranti in una “doppia presenza” come lavoratori e individui non completamente compresi nella configurazione e nella rappresentazione classica del politico, i quali non possono fare altro che respingere l’idea di un mondo socialmente e spazialmente diviso a scomparti da una rigida e gerarchica linea di classe.

Genere

A partire dalla seconda metà degli anni ’80, con l’avvio di studi di migrazioni femminili si è verificata una presa di coscienza della «rottura nel paradigma interpretativo delle migrazioni, intese come spostamenti del maschio breadwinner, determinati da fattori socio-economici». (p. 29) L’aumento delle migrazioni femminili è legato alla crescita di richiesta di lavoro di cura, che continua ad essere svolto prevalentemente dalle donne. La domanda di lavoro di cura è in crescita a causa di forti riduzioni nell’accesso al welfare e ai servizi. Va da sé che si ripieghi in soluzioni private, per le quali le donne migranti, operaie della casa rappresentano a tutti gli effetti una risposta. Tale fenomeno non è certamente spiegabile sociologicamente per mezzo della retorica per cui “gli italiani non si abbassano più a fare certi lavori” ma perché il costo, per lo stesso lavoro, da parte di una donna italiana è estremamente più alto, ed essendo rimesso al reddito di una famiglia è praticamente inaccessibile.

Altra componente della migrazione femminile è la cosidetta «“brain drain migration” con una percentuale del 17.6 percento di laureate contro il 13.1 percento degli uomini; abbiamo quindi un crescente numero di donne migranti high skilled a fronte di un’offerta occupazionale sempre più low skilled». (p. 31) È infine necessario considerare le 250.000 donne che ogni anno sono coinvolte nel traffico del sesso, costrette o meno, a diventare sex workers nelle modalità e forme più disparate: dai marciapiedi alle case chiuse. Caratteristico di questo segmento dei flussi migratori è che spesso la rete di trafficanti cui si appoggiano per compiere il viaggio è soprattutto al femminile. Sono le donne, ad esempio le maman nel caso della tratta sulla prostituzione africana, a intercettare le donne che vogliono partire, organizzare il viaggio, anticipare i soldi necessari, preoccuparsi che questo vada a buon fine, mettere le migranti a lavoro non appena arrivate e tenerle strette a sé fin quando non avranno ripagato il loro debito di viaggio. In questo modo si crea un vero e proprio turn over, tra le donne che arrivano e quelle che ormai gestiscono il mercato. Queste donne, con tutta la complessità delle cause per cui lasciano la loro casa (scelte emancipatorie, costrizioni di varia natura) migrano sole, rovesciando il modello tradizionale dell’economia familiare.

Un ulteriore problema inerente le migrazioni femminili sono sicuramente gli aspetti estetico-culturali che esse portano con sé, come ad esempio le varie questioni legate all’uso del chador, o più recentemente del burkini, indossati rivendicando, non solo il riconoscimento della propria appartenenza religiosa, ma anche il diritto di configurare la vita sociale sulla base di quella appartenenza, che inevitabilmente si scontrano con un certo tipo di femminismo del tutto “euro-centrico” e paradossalmente “paternalistico”. Le migrazioni femminili comportano una valutazione complessa riguardo la costruzione della soggettività migrante e l’aspetto specifico del razzismo istituzionale, il quale può essere letto come l’istituzionalizzazione patriarcale della vulnerabilità imposta alle donne. Per questo, «la migrazione è un movimento da uno specifico sistema patriarcale ad un altro, vincolato alla razza e alla classe nel capitalismo transnazionale». (Parreñas, Servants of Globalization, Deterritorialization and Hybridity, 2001). Le donne migranti con i loro movimenti mettono in campo una specifica soggettività, non solo sfidando i confini ma anche i modelli patriarcali, respingendo quindi l’idea di un mondo socialmente e spazialmente diviso a scomparti da una rigida e gerarchica linea di genere.

Si scrive migrazioni, si legge migrante

Il lavoro di cui mi sono occupata, richiamando per sommi capi i nodi fondamentali della riflessione al suo interno contenuta, ha il pregio di offrire una visione ampia dell’autonomia del soggetto migrante. “Si scrive migrazioni, si legge migrante” significa proprio questo: la volontà di uscire dall’analisi delle migrazioni come massa indistinta di braccia che si muovono a occupare gli strati subalterni che il capitalismo concede, guardando invece ai corpi, alle persone con tutto il loro portato di soggettività. Occorre a questo punto domandarsi “quando si cessa di essere migranti?” riuscendo così ad «accedere a quella prerogativa della cittadinanza che possiamo chiamare con Goffman disattenzione cortese o, seguendo Delgado diritto all’indifferenza, ovvero una condizione di opacità in virtù della quale certi soggetti non “sono sistematicamente obbligati a dare spiegazioni, giustificare ciò che fanno, che pensano, quali sono i riti che seguono, cosa mangiano, che sessualità hanno, che sentimenti religiosi professano e in quale visione del mondo credono, tutti dati e informazioni che noi, i normali, ci negheremmo a fornire a persone non facenti parte del nostro nucleo più intimo di relazioni”. Rivendicare per tutti e tutte il diritto all’opacità diviene allora la condizione per generare forme di incontro meno asimmetriche e non subalterne ad uno sguardo coloniale» (p. 198)