Istantanea del Sessantotto[1] [Per una rinascita ontologica del Movimento]

La redazione di Thomasproject pubblica il saggio breve di Gianfranco Marelli apparso nella ripubblicazione del volume di Giorgio Cesarano dal titolo “I giorni del dissenso. La notte delle barricate. Diari del Sessantotto” (a cura di Neil Novello e con uno scritto di Gianfranco Marelli, Castelvecchi, 2018, pp.218, € 17,50). Ringraziamo l’autore e la casa editrice per averci concesso la pubblicazione online.

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di GIANFRANCO MARELLI [ITA_29/10/2018] 

 

«Nessuno può decentemente arrogarsi

il lugubre diritto

d’insegnare quando si può solo imparare,

di predicare quando si può solo esserci

e facendo cercare di capire».

Giorgio Cesarano

 

“Compagni, cordoni”!

Se queste due parole non suscitano in chi legge forti emozioni contrastanti, difficile sarà comprendere il Séssantotto di Giorgio Cesarano e di tutti quelli che vissero la breve stagione dove l’impossibile era non credere possibile una trasformazione radicale della propria vita. Una trasformazione in grado di far maturare le proprie esperienze individuali entro un afflato collettivo sfociante nella rivoluzione che ti fa, anche se non la si fa. Certo, una rivoluzione che ti fa essere ciò che desideri essere qui e ora brucia nel volgere di un momento la miccia detonante senza neppure il tempo di poter fare la rivoluzione; o forse inconsciamente sai che il tempo che ti fa essere rivoluzionario non coincide con il tempo necessario per fare la rivoluzione. Eppure… eppure, “Compagni, cordoni!”: l’immaginazione è rivoluzionaria, ossia il rinascere di un sentire – testimonia Cesarano nei suoi diari – «che è qualcosa di diverso dall’ideologia e da ogni tipo di dogmatica certezza, è qualcosa che aggalla quasi di colpo nella mente e precipita in fatti collettivi e travolgenti le idee che un attimo prima, il giorno o l’ora prima erano potevano essere anche soltanto segregata speranza o disperazione, macerata e avvilita collera, sapienza impotente e amaro senso dell’impossibilità».

Pertanto, più che parlare della “rivoluzione” del ’68 – un attimo storico esauritosi nel volgere commemorativo e celebrativo della meglio gioventù – parleremo della “rinascita” nel ’68 dell’immaginazione rivoluzionaria di un sé collettivo la cui esistenza nella società ha fatto da spartiacque tra un prima e un dopo: da persona/oggetto disinteressata dei fatti, a individuo/soggetto interessato a farsi altro; passaggio obbligato per quelli che erano caparbiamente intenzionati a «non voler somigliare ai loro padri – a me [scriverà con lucida autocritica Cesarano] – e a quanto pare decisi a non farsi catturare a nessun costo». Pure sbaglierebbe chi osservasse il ’68 soltanto come un movimento di rinascita generazionale, la risultante sociale di uno scontro fra generazioni in cui la forza dirompente dei giovani assunse un carattere politico tale da investire tutte le forme costitutive i valori della società, criticandone la vetustà così da porre in discussione l’autorità dei vecchi. Fu anche questo, ma non solo.

Chi visse il Séssantotto e non si limitò a essere spettatore più o meno partecipe di quanto allora stava accadendo nel centro come nella periferia di una società in rapida trasformazione, si accorse immediatamente della parzialità e incompletezza nel ridurre il fenomeno a uno scontro generazionale; infatti, sebbene i giovani fossero l’oggetto/soggetto della trasformazione radicale della società; la posta in gioco era più alta e concerneva una mutazione genetica che riguardava l’intera umanità, considerata la Merce che acquista valore nel produrre/consumare merce. Sì, perché se il ’68 fu un momento eccezionale nella società sul finire del secolo scorso, lo è stato principalmente per aver posto alla ribalta con forza inaudita e insperata l’immagine di un sé non più sottomesso alle dure regole del consumismo che ti fa merce che produce merce, allora imperante nei Paesi industrializzati da divenire una sorta di ideologia progressista a livello planetario; regole che imponevano di fabbricare se stessi come una persona perbene, una persona a posto, al punto da scontrarsi con il bisogno reale di ritrovare l’immagine di sé non più nei ruoli preconfezionati dalla società dello spettacolo, ma alla radice del proprio essere, del proprio “Io-indiviso”, vale a dire non alienato nella figura della persona civile prodotta dalla civiltà dei consumi.

Il perbenismo, unica morale della società dell’opulenza, fu dunque il bersaglio grosso della contestazione sessantottina, la cui radicalità nel volerlo demolire per sostituirlo con un comunitarismo fondato sull’uguaglianza nella partecipazione alle decisioni di una società anti-autoritaria e pacifista ancora oggi divide i più sul significato positivo o negativo da attribuirvi; divisione che solo apparentemente, superficialmente e ideologicamente separa chi giudica formidabili oppure catastrofici quegli anni, ma che piuttosto distingue fra chi prese corpo all’evento fino a farsi corpo dell’evento, e chi si limitò a surfare sulla cresta dell’onda contestatrice, dimostrando capacità funambolesche al punto da spiaggiare placido e indifferente al rifluire del Movimento, così da riciclarsi prontamente all’interno del sistema con il merito baldanzosamente ostentato di aver fatto parte della meglio gioventù, il cui appello “Compagni, cordoni!” è un lontano ricordo per fingersi ciò che mai sono stati, non certo un monito per esserci ancora.

I diari di Giorgio Cesarano sono la testimonianza diretta del farsi corpo del protagonista – un quarantenne felicemente inserito nell’ambiente intellettuale milanese, ma non solo – durante i giorni che precedettero e seguirono l’occupazione delle università Cattolica e Statale nella primavera milanese del 1968; un’istantanea che offre «un’immagine di sé più ricca più esatta più dura» di quei giorni e di quelle notti, disegnando al contempo la parabola politico-esistenziale dell’autore all’inizio della propria consapevolezza corporea e coscienza di sé, così come lo sfumato profilo del movimento studentesco nell’istante in cui viene identificato al pari di un corpo unico in movimento [“Compagni, cordoni!”] in grado di agire rapidamente all’unisono, producendo fatti circostanziati la cui radicalità stupisce soprattutto chi ascolta «allocchito questo corto circuito fulmineo di idee che – confesserà Cesarano in queste memorie – credevo ancora relegate al ruminìo lento e quasi sacrificale delle fazioni politiche, minoritarie della nuova sinistra, ancora insomma recluse nelle catacombe delle rivistine specializzate e dei discorsi teoretici di pochi infelici, come avevo sentito e visto e anche fatto io stesso, pesantemente e penosamente, da qualche anno in qua».

Una riflessione critica scaturita dall’attenta osservazione del proprio ambito politico-esistenziale posto d’innanzi alla corporeità dei fatti di quei “giorni del dissenso”, ricercandone le radici non nella testa delle fazioni politiche e delle loro rivistine specializzate, bensì nel corpo dei giovani studenti i cui slogan rappresentano un nuovo linguaggio «che somiglia al fabbricar versi che uno dietro l’altro fanno una poesia», e la cui radicalità è incomprensibile se non si decide «che cosa siamo o chi siamo in tutto questo». Come altrimenti comprendere appieno la contestazione dei giovani studenti se non constatando la corporeità di quanto stava accadendo, così urgente e preminente da porla a incipit narrativo [«Sono qui, con le ossa rotte»] della propria esperienza del Séssantotto? Cos’è poi questo richiamarsi al sé corporeo, nella sofferenza patita a causa di una manganellata inferta da un poliziotto nel corso di una carica per disperdere la protesta degli studenti milanesi, se non un voler affermare senza eroismi il suo esserci in tutto questo? E quanto tutto questo è ben diverso e distante da tutto quello descritto pochi mesi prima per la medesima rivista «Nuovi Argomenti» – ma proditoriamente pubblicata in anteprima da «L’Espresso» il 16 giugno 1968 – da un altro intellettuale e scrittore, Pier Paolo Pasolini, con la famosa poesia Il PCI ai giovani?

Per poter rispondere, occorre comprendere come Cesarano, et in limine anche Pasolini, sia giunto ad esserci nel ’68, così da osservare dalla medesima visuale un Movimento che allora appariva sotto molteplici sfumature di colore, in seguito purtroppo offuscate da una pretesa omogeneità cromatica nell’osservazione, al punto da cancellare la particolarità data dall’ombreggiatura che gli conferiva la sua viva e vera corporeità. Elemento cardine, questo, assunto invece da Cesarano nello stendere in modo impressionistico ciò che inizialmente erano degli appunti battuti a macchina e scritti «per me per non dimenticare, per cacciare in cassetto» e che in seguito – su sollecitazione di Giovanni Raboni, anch’egli protagonista di quei giorni del dissenso con il suo esserci – furono inviati alla rivista «Paragone» per essere pubblicati poco dopo i fatti vissuti; iniziativa che adombrò la volontà di Cesarano nel proseguire l’avventura letteraria intrapresa obtorto collo, tanto da turbare quel minimo di consapevolezza di sé poc’anzi raggiunta con fatica e con dolore.

Infatti, usciti con il titolo “Vengo anch’io” – ripreso dall’omonima canzone con la quale «la voce piangina di Jannacci dal jukebox» chiude i ricordi precedenti – gli appunti non più soltanto “battuti a macchina” si ritorcono contro il suo stesso autore, sempre più perplesso per il fatto che «uno scrive la storia d’uno che non vuole essere per una volta uno che scrive e tac gli viene d’essere una volta di più quello che scrive». Esperienza comune fra gli intellettuali di fronte agli avvenimenti di cui sono osservatori coinvolti, evidenziando proprio per questo l’immediata, ambigua contraddittorietà tra «questo mio nostro voler essere qui non come letterati e il risultato che ne tocca di carta stampata»; vale a dire il fatto di essere uomini di carta che si confrontano con il loro essere uomini di corpo, consapevoli di scottarsi con la più dura e cruda verità: come esserci senza strumentalizzare la situazione, il contesto e i loro protagonisti.

Per molti intellettuali sentirsi fuori posto fra studenti, poliziotti e passanti perlopiù benpensanti, li condusse inevitabilmente a riflettere sul loro posto nella società, interrogandosi se sia d’uopo preservarlo nonostante la consapevolezza di quanto fosse preconfezionato e fabbricato dal sistema al fine di perpetuarsi così da perpetuare il loro immarcescibile posto nel sistema; oppure riaffermare e rivendicare il proprio ruolo di coscienza critica della società a difesa dei valori tradizionali di una cultura e di una “civiltà del pane”, contro l’omologazione fra ricchi e poveri nella presente “civiltà del futile”, il cui rapido sviluppo consumistico ha saputo addomesticare persino i più “rivoltosi”; oppure…

«che qui e altrove, più altrove che qui naturalmente comincia sta cominciando a rendersi visibile la linea di una spaccatura con il passato poco o niente connessa che spartisce seccamente chi è in qualsiasi panno camuffato nel sistema preso e chi per stravolto e come traforato che sia contro e fuori dal sistema s’affaccia a cercare ossigeno a proporsi da un no durissimo in principio di immaginazione e che se anche nelle minime come nelle grandi cose non si sa non sappiamo forse nessuno sa che cosa si debba fare quello che invece è lampante definitivamente lampante è tutto quello che non si deve più fare più credere più sperare».

Nella confusione di quei momenti, i giorni e le notti sono anzitutto frenetici, compulsivi nella gioiosa convinzione di dovere far presto perché tutto non sia più come prima, anche se difficile è saper cosa fare. Soprattutto se i principali protagonisti del ’68, i giovani studenti e operai, sperimentano un nuovo modo di far politica e d’intenderla, le cui radici affondano nella realizzazione dei propri desideri individuali – finora soffocati e imbrigliati grazie ai bisogni indotti dallo sviluppo consumistico della società dell’opulenza – senza più attendere il paradisiaco Domani della Rivoluzione per sentirsi finalmente liberi in una società libera, prefigurando qui e subito la concretezza di vivere nella consapevolezza di sé, del proprio essere fisicamente antagonisti al sistema. Un sentirsi rivoluzionari, scevro dalla necessità di aspettare – purtroppo ancora per poco, come si saprà – che i professionisti della politica indichino la giusta via del farsi rivoluzione, appresa leggendo e scrivendo nelle “catacombe delle rivistine” di una sinistra barricadiera soltanto a parole. Perché, ora che le barricate ci sono, il loro esserci impone lo starci per capire – scrive emozionato Giorgio Cesarano – «in un lampo che non a un nuovo modo d’agire sto questa incredibile notte assistendo, non a un nuovo e magari mutilato imperfetto modo d’agire ma invece a un nuovo modo d’esprimere un nuovo modo di significare».

Lo scarto tra modo d’agire e modo di significare appare dunque la connotazione qualificante che denota e contraddistingue, a parere dell’autore, quanto sta accadendo in quelle giornate sessantottine di Milano; aspetto assiale per comprendere nello specifico con quale mente Giorgio Cesarano osserva l’agire pratico degli studenti, diffusosi in seguito fra gli operai e che lo condurrà a partecipare al Séssantotto non più in veste d’intellettuale uomo di carta, ma di solidale compagno uomo di corpo. Un modo di porsi che gli avvenimenti sessantottini confermeranno la necessità di modificare in un modo di essere non più conciliante con il ruolo di intellettuale e con l’ambiente di uomini di carta, fino a trasformarsi nel nodo esistenziale che Cesarano seppe sciogliere alcuni anni dopo, suicidandosi. Lo stesso anno in cui un altro poeta, sul litorale d’Ostia, si “suicidò per delega”.

L’oscillazione fra il ri-nascere e il morire scandì il tempo di una contestazione radicale dell’esistente, formatasi gradualmente in un Movimento organizzato che – muovendo le basi della vita quotidiana – unì e trasformò le lotte su problematiche generali [la guerra in Vietnam, la Rivoluzione Culturale cinese, la guerriglia latino-americana, il pericolo del conflitto atomico fra Stati Uniti e Unione Sovietica, il razzismo e l’emarginazione risultanti dell’urbanizzazione planetaria delle società industrializzate] in lotte particolari [la riforma universitaria, i contratti sindacali, il diritto alla città e a migliori condizioni urbane], così da aprire spiragli d’immaginazione rivoluzionaria al punto che, quando «il potere gettò la maschera gli oppressi dettero di muso in sciabole fucili e gas», e la rabbia prese il sopravvento perché «la fame reale o metaforica può restar fame mille anni covare fame e figliare fame ma la collera la rabbia è un virus di fuoco che può in ogni momento non si deve dimenticare questo fatto che può in ogni momento rovesciare l’asse del mondo».

In effetti a comprendere la collera, la rabbia espressa dal Movimento del ’68 non furono in molti fra gli intellettuali di allora, poiché in pochi conobbero immediatamente le reali motivazioni della contestazione. Sì, perché le problematiche che animavano il dibattito politico-culturale dei primi anni ’60 riguardavano essenzialmente i rapporti fra gli intellettuali e i partiti di una sinistra italiana appiattita attorno a un’interpretazione socialriformista del progresso economico – considerato un fattore positivo per lo sviluppo della classe lavoratrice attraverso una politica compartecipazionista con l’assetto industriale della ricostruzione post-bellica – all’interno di una visione manichea della situazione internazionale volta a preservare l’incondizionato appoggio al blocco sovietico.

Saranno infatti gli avvenimenti dell’insurrezione operaia scoppiata in Ungheria il 23 ottobre 1956 – più ancora delle “rivelazioni” krusceviane sugli errori/crimini di Stalin contenute in un documento segreto trasmesso ai leader dei partiti comunisti internazionali nel corso del XX Congresso del PCUS, il 25 febbraio dello stesso anno – a scuotere dal torpore gli intellettuali organici del PCI, suscitando un ampio dibattito sulla linea revisionista condotta dalla segreteria del partito che fece maturare nei successivi anni una critica interna, indirizzata a stimolare una politica più prossima ai bisogni della classe operaia rispetto all’esperienza governativa del centro-sinistra [DC-PSI] e meno succube ai diktat imposti dalla bipartizione dell’assetto politico mondiale in “zone d’influenza”; critica che, prima soffocata poi espulsa dal partito, finì per alimentare i gruppi della sinistra storica della IV Internazionale e della sinistra radicale olandese, oppure a costituirne di nuovi ispirandosi alla Rivoluzione Culturale cinese, o ancora dando vita a nuovi gruppi dall’impronta operaista e anarco-sindacalista, influenzati soprattutto dall’esperienza delle lotte operaie scoppiate nei primi anni ’60 a seguito dell’intento padronale di modifiche nell’organizzazione del lavoro al fine di aumentare la produttività oraria del lavoratore.

A quest’ultima tendenza si avvicinò progressivamente Giorgio Cesarano che nel dopoguerra si era iscritto al Pci e lavorava come cronista a «l’Unità», fino a quando nel 1946 non venne estromesso dal partito e di conseguenza dal quotidiano a seguito dei suoi passati bellici [da giovanissimo si arruolò nel battaglione “Lupo” della X Mas], sebbene fermi ormai fossero i suoi propositi ideologici e ben chiaro l’indirizzo del suo impegno politico a favore della classe operaia. Pertanto dovette con tenacia lavorare in un contesto intellettuale e politico non facile al fine di ottenere ascolto e modo di farsi apprezzare come poeta della vita quotidiana e delle sue miserie [sono questi gli anni in cui pubblica le raccolte poetiche L’erba bianca nel 1959 e La pura verità nel 1963], e grazie all’amico Franco Fortini strinse amicizia con Giovanni Raboni, Giovanni Giudici, Giancarlo Migliorino e insieme collaborarono a riviste quali «Nuovi Argomenti» «Paragone», «Quaderni Piacentini» e altre.

Fra le riviste prettamente politiche Cesarano collaborò in quegli anni con “«Classe Operaia» diretta da Mario Tronti, costituitasi a seguito della rottura con la rivista di Renato Panzieri, «Quaderni Rossi», in merito alla diversa interpretazione data agli avvenimenti torinesi di Piazza Statuto [7-8-9 luglio 1962] che determinarono un radicale inasprimento nelle forme della conflittualità sindacale non più scandita da una periodicità temporale meccanica dovuta alle ricorrenze contrattuali, ma piuttosto da una conflittualità permanente la cui crescita autonoma raggiungerà il suo apice durante “l’autunno caldo” del 1969. Questo perché la composizione di classe era cambiata: all’operaio specializzato, ligio alle direttive del Partito e del Sindacato, si era aggiunto l’operaio-massa, il giovane proletario recentemente emigrato al Nord per rimpolpare la forza-lavoro che il boom economico aveva assorbito nelle catene di montaggio delle fabbriche con mansioni dequalificanti, alienanti, e pertanto estraneo alla disciplina del lavoro, da sempre considerata motivo d’orgoglio e elemento assiale per rivendicare la partecipazione operaia alla Ricostruzione del Paese. Infatti, proprio a partire dalla “Rivolta di Piazza Statuto” la figura dell’operaio-massa assunse un ruolo centrale nelle lotte dei primi anni ‘60, praticando forme di sciopero molto radicali e non programmate dalle strutture sindacali – definite a “gatto selvaggio” – al punto da allargare lo scontro non solo nelle fabbriche, ma a tutto il tessuto urbano, in quanto la lotta per conquistare “più salario, meno orario” poneva concretamente un altro modo d’intendere la vita e il proprio ruolo nella società.

Questa nuova condizione conflittuale interna ed esterna ai luoghi di produzione, animò il dibattito politico e culturale delle riviste e dei gruppi collegati ad esse fino a farne il terreno propizio per una riconsiderazione dei rapporti fra la classe operaia e le sue rappresentanze politico-sindacali, tali da riformulare il proprio intervento teorico e pratico alla luce dei cambiamenti sociali che il progresso tecnologico e lo sviluppo economico avevano determinato. Inevitabilmente la valutazione di tutto ciò tracciò la linea fra chi evidenziava con maggior forza gli aspetti tecnico-produttivi della nuova ricomposizione di classe, puntando ad uno studio/intervento più specifico sul mondo delle fabbriche in modo da imprimere un discorso sull’organizzazione delle lotte operaie finalizzato ad influenzare la corrente di sinistra del Pci e dei sindacati così da abbracciare una politica effettivamente vicina agli interessi di classe [«Quaderni Rossi»], e chi credeva più utile e indispensabile verificare se le lotte operaie in atto potevano indicare nel formarsi di nuovi soggetti sociali – determinati non solo dall’introduzione massiccia della tecnologia nei processi produttivi, ma anche da fenomeni a essi connessi: l’emigrazione interna, l’urbanizzazione, la scolarizzazione di massa – la necessità di un’organizzazione autonoma dai partiti e dai sindacati, ma soprattutto capace di esprimersi come una struttura le cui forme politiche traducevano nel sociale le forme di organizzazione che gli operai avevano saputo praticare nello lotte contrattuali [«Classe Operaia»].

Nel partecipare al dibattito ancora relegato «al ruminìo lento e quasi sacrificale» degli intellettuali, protagonisti indiscussi del maturarsi di fazioni politiche minoritarie della nuova sinistra, Giorgio Cesarano guardò anche al di fuori, cercando di comprendere il carattere passionale e vitale che le lotte radicali esprimevano contro l’organizzazione del mondo come una fabbrica, anzi no: La Fabbrica Mondo. Ciò gli consentì un approccio meno “ortodosso” nei confronti di quelle istanze sociali la cui radicalità dei comportamenti aveva come soggetto l’agire del proprio corpo ribelle a qualsiasi ruolo la società del benessere intendesse fargli impersonare. Soprattutto se l’onda della beat generation, degli hippy, dei Provo si stava estendendo alle più grandi metropoli occidentali al punto da coinvolgere anche città come Milano, dove nel 1965 si formò la prima realtà giovanile che con il giornale, «Mondo beat» fu un punto di contatto e di ritrovo fisico con tutte le realtà giovanili italiane che rappresentavano con il loro abbigliamento da “figli dei fiori” e i loro modi trasgressivi e anticonformisti, il primo fattore discordante dai valori della società dei consumi e contestatario della civiltà autoritaria e gerarchica dei padri basata sul posto di lavoro, la posizione, la carriera, il successo. Si deve aggiungere anche che, nella metà degli anni ’60, Milano come Torino e Genova fu uno dei centri urbani che attirò nelle periferie una popolazione emigrata prevalentemente dal sud d’Italia, occupata nelle grandi e medie industrie e residente nei casermoni dell’allora florida edilizia popolare; una popolazione in gran parte giovane, sradicata dal proprio contesto culturale e per la prima volta nelle condizioni di poter accedere a livelli d’istruzione Superiore e all’Università, grazie alla Riforma della Scuola Media Unifica del 1962.

In questa tempra, l’attività politica e culturale di Giorgio Cesarano non poté non accentuare quei fattori presenti nel vissuto quotidiano che stridevano e facevano a pugni con il tran-tran di un’esistenza spesa a consumare merce e a farsi consumare nel produrla, tanto che la ricomposizione sociale della classe offriva stimoli di riflessione a riguardo della centralità della “fabbrica sociale” e dei suoi protagonisti più radicalmente impegnati a contestarla. Riflessione che gli consentì di essere presente ne I giorni del dissenso, partecipandovi da acuto osservatore e percepire che la contestazione studentesca, pur fra mille difficoltà, conteneva in sé gli stessi germi vitali dell’insofferenza giovanile nei confronti dei padri, in quanto «in un certo modo tutto è cominciato qui, in questi Voom-voom e Piper, nei capelli lunghi e negli abiti colorati (anche se ai nostri amici politicissimi non piacerebbe sentirlo dire e non vogliono pensarci) come del resto è vero che è nato a Londra e a New York, a Berkley eccetera prima il pacifismo e la non-violenza come forme elementari del dissenso globale e poi a poco a poco per trapassi che magari non sono sempre del tutto filtrati attraverso le stesse persone, la coscienza politica che porta i negri di Harlem dalle miti richieste di integrazione al Black Power e i giovani americani dall’obiezione di coscienza e dal misticismo hippie ai coltelli nei blue-jeans e alla rabbia violenta dei freemen».

Sicuramente la frequentazione sul finire degli anni ’60 degli ambienti anarchici milanesi e del milieu situazionista francese, oltre agli studi su Rosa Luxemburg, il consiliarismo e «Socialisme ou barbarie» – la rivista francese diretta da Cornelius Castoriadis, fra le prime a introdurre nel dibattito corrente una critica del marxismo ortodosso, approfondendo l’analisi rizziana della società burocratica divisa in dirigenti e esecutori – segnarono l’orizzonte teorico di Cesarano e lo condussero a praticare una visione politica radicale rispetto a quanto ribolliva all’interno dei “politicissimi amici” con i quali sul piano intellettuale condivideva l’impegno a svecchiare da sinistra PCI e sindacato. In particolare la partecipazione alla Federazione Anarchica Giovanile Italiana con il gruppo milanese La Comune assieme a Eddie Ginosa, un giovane e stimato compagno con il quale si creò un solido legame intellettuale interrotto bruscamente con il suicidio del giovane nell’ottobre del ’71 – il primo di una lunga serie di suicidi che scosse profondamente Cesarano – gli consentì di tracciare una parabola che lo condusse a riconoscersi in un progetto comunitario intriso di venature marxiste, libertarie, situazioniste.

Munito di questi strumenti teorici, cercò la loro attuazione dapprima nelle nascenti organizzazioni spontanee del Movimento milanese come il CUB Pirelli, divenuto nel 1967 il luogo dell’organizzazione autonoma delle lotte operaie e studentesche, per poi essere fra i protagonisti dell’occupazione del palazzo della Triennale e dell’hotel Commercio, due delle più importanti lotte che contraddistinsero l’anima più radicale del ‘68/’69 meneghino, slegata dalle camarille del Movimento Studentesco di Mario Capanna e dei gruppi politici quali Avanguardia Operaia intenti a monopolizzare ideologicamente la contestazione, fino a partecipare alla fondazione di Ludd, un gruppo informale la cui tendenza era l’estremizzazione delle lotte del proletariato spingendolo ad attuare lotte non sindacali, “anti-economiche”, e forme organizzative consiliari e “unitarie” (né partito, né sindacato) per l’immediata realizzazione del comunismo senza passare attraverso una transizione socialista e senza costruzione di un modello o di un progetto positivo da posporre al “tutto e subito” che allora pareva il realizzarsi della rivoluzione nei soggetti protagonisti del Séssantotto.

Appare pertanto comprensibile l’interpretazione che emerge dai suoi diari su I giorni del dissenso e su La notte delle barricate, intenta a catturare con uno scatto l’immagine istantanea di sé e del proprio esserci per capire come tutto ciò avrebbe potuto svilupparsi, soprattutto dopo che il Maggio parigino aveva insegnato che «Trattare non sarà all’infinito, dico, l’ultima parola». La parola che la poesia di Cesarano aveva allora lasciato avverarsi nel linguaggio dei rivoltosi non dimidiato dalla cultura del potere, per intraprendere la vera guerra contro la mancanza di senso di “dover essere” persona perbene affiorante anche nella pseudo contestazione dei rivoluzionari senza rivoluzione pronti a rientrare nei ranghi del sistema una volta appurata l’imbattibilità della forza repressiva dello Stato venuto in soccorso per addomesticare il conflitto entro la concertazione politico-sindacale, dopo aver costretto i soggetti più riottosi o alla rinuncia di sé attraverso il riflusso, oppure al sacrificio di sé con la lotta armata.

Dallo scatto allo sviluppo, l’immagine dei protagonisti del Séssantotto si è così formata nell’idea di un movimento collettivo che le diverse emulsioni ideologiche hanno impressionato a seconda del tempo di esposizione del proprio esserci, virando dal ricordo sabbiato della “meglio gioventù” al bruciato causato dalla propria sovra esposizione. Pertanto l’immagine di sé per alcuni è coincisa con l’immagine del movimento e del suo evolversi in volontà viva e corporea di un cambiamento radicale in atto, per altri si è trasformata in una occasione/passerella dove mostrarsi battagliero guerriero di un passato lugubre e ammuffito, subito abiurato non appena l’immaginazione rivoluzionaria ha lasciato spazio per immaginarsi al potere. Constatazione che condusse Cesarano e Pasolini pochi anni dopo [1975], in modi e situazioni differenti, al fatidico incontro con il reciproco nodo esistenziale, quando la vera guerra per una rinascita ontologica capace di tradurre la non-vita in vissuto reale sembrò del tutto persa.

In questo breve arco temporale [1968/1975] Pasolini e Cesarano affrontarono esperienze segnate dall’essere refrattari alla società dei consumi e allo sviluppo mercificato del progresso umano, e se per il primo ferma rimase la convinzione della necessità di difendere l’ormai tramontata “civiltà contadina”, quella della meglio gioventù borgatara e sottoproletaria pre-sessantottina ancora spontanea e dotata di una cultura dalla forte identità comunitaria, per Cesarano lottare per una “nuova civiltà” significò continuare la radicalità del movimento nell’intento di contribuire al formarsi di una comunità umana [Gemeinwesen] al fine di ritrovare “l’uomo che non è mai stato ancora”. Purtroppo i due poeti, nati per una vita che ancora doveva essere inventata, nella misura in cui hanno sperimentato il modo per poterla vivere nella pienezza di sé hanno finito per uccidersi. Una resa al mal di vivere dopo aver combattuto tenacemente contro il vivere male di questa società. Continuare dove loro e tanti altri come loro sono stati costretti a fermarsi è il minimo non più sindacabile per andare incontro alla vera vita. Perché “trattare all’infinito” non diventi un suicidio al rallentatore.

Novembre 2017

[1]      Il lemma vuole indicare contemporaneamente sia il momento storico e collettivo, sia l’implicazione soggettiva che sorregge l’impostazione e l’atteggiamento tenuto da Cesarano nella spasmodica ricerca di sé e del suo farsi rivoluzionario nell’esserci e nel partecipare a quel contesto storico.