Noi filosofi ottimisti, ovvero: dimenticare Foucault (e Voltaire, e Leopardi)

(Diari post-apocalittici – 1)

di Gianfranco Ferraro (ITA_03.04.2020)

 

«Tutti coloro che oggi vivono in attesa di nuovi profeti e di nuovi redentori si trovano nella stessa situazione che risuona in quel bel canto della sentinella di Edom durante il periodo dell’esilio, raccolto nell’ oracolo di Isaia: “Una voce chiama da Seir in Edom: sentinella quanto durerà ancora la notte? E la sentinella risponde: verrà il mattino ma è ancora notte; se volete domandare ritornate un’ altra volta”»

Max Weber

 

Qual è il compito della filosofia, in tempi di catastrofe? Ci sono due possibilità: una è quella di porre domande, di interrogare, andando oltre le verità consolidate, o che si spacciano per tali. Accompagnando accuratamente la paura e l’angoscia di una società, delle persone prossime, ma evitando che la paura e l’angoscia occupino il centro della scena, togliendolo a quello che invece al centro della scena dovrebbe sempre stare, in tempi normali come in tempi di catastrofe: la ricerca della verità. Poi ce n’è un’altra, di possibilità: che non è solo l’ottimismo di chi spera che tutto andrà bene, ma quello di chi dice che in fondo va tutto bene, che tutto può – e deve – essere accettato.

L’ottimismo va di moda, anche in tempi di catastrofe, per quanto esso non sia sempre un buon servizio, un aiuto. Quasi mai per la società. Mai per la filosofia, se vuole accompagnare la società.

Forse è un bisogno umano, anche di chi fa filosofia, ma il rischio è appunto quello di offrire un cattivo servizio. L’ottimismo di chi accetta la catastrofe e il modo con cui la si governa sembra rivelare a volte un pensiero sommerso, con cui non si vogliono fare bene i conti: quello per cui si vive, comunque, nel migliore dei mondi possibili. 

La figura del filosofo ottimista è tratteggiata caricaturalmente da Voltaire nel suo Candido. Di fronte alle macerie del terremoto di Lisbona, il filosofo ottimista Pangloss ribadisce la sua tesi: «Pangloss li consolava assicurandoli che le cose non potevano andare altrimenti; perchè, diceva egli, tutto quel che è, è ottimo, imperocchè se vi è un vulcano a Lisbona non poteva essere altrove non essendo possibile che le cose non sieno dove sono; perchè ogni cosa è bene». E tanto ogni cosa è bene che Voltaire fa finire il buon Pangloss direttamente sul rogo che la Santa Inquisizione aveva preparato in quanto «lo spettacolo di qualche persona bruciata a fuoco lento in gran cerimonia era un segreto infallibile per impedire che la terra non si scuota». Il filosofo ottimista insomma non finisce granché bene nel suo voler, e volersi, consolare, e rimane vittima di se stesso, e della sua fiducia nel fatto che tutto è – alla fin fine – ben governato.

È una figura, quella del filosofo ottimista, che ricorre spesso anche nei pensieri di Giacomo Leopardi, che criticava appunto nella sua Ginestra i filosofi del suo «secol superbo e sciocco», totalmente appiattiti sulla scienza e sulle «magnifiche sorti e progressive» dell’umanità, tanto da «pargoleggiar gl’ingegni tutti», da trattare cioè gli uomini come bambini, e chiamando progresso quello che è in realtà un dimenticare ciò che la storia ha sempre insegnato: e cioè che né la natura né i sovrani hanno come ultima istanza il bene degli uomini, a meno che non sia, questo, un bene anche per loro.

Non avevamo mai vissuto una pandemia. I genitori o i nonni, gli stessi che lo possono raccontare e che ora tramano ogni giorno per avere la scusa di uscire, ci dicono che durante la guerra era diverso. A volte si faceva la fame, questo sì, ma si usciva a giocare. Poi, quando arrivavano le bombe, le sirene suonavano, le famiglie andavano nei piani interrati, o nei rifugi. Era diverso. Di una pandemia nessuno dei viventi ha memoria. Se non per studio.

Per esempio, in un libro che per molti anni è andato per la maggiore, Sorvegliare e punire, del 1976, Michel Foucault raccontava di come le epidemie – un fatto – avessero provocato altri fatti: tra questi, proprio all’inizio del «secol superbo e sciocco», irriso da Leopardi, la sperimentazione di misure di controllo individuale come metodo più efficace per governare la società. La fede nella scienza medica e nella polizia si sostituiva alla fede nel pastore religioso o politico: una fede che creava così nuovi terreni per quei cambiamenti decisivi per lo Stato e per la città che hanno forgiato la società in cui siamo nati, e che nuova lena dava a quei filosofi ottimisti che avrebbero potuto dire, come avrebbero detto una volta ancora, che tutto ciò che avviene, avviene nella maniera migliore possibile.

Nessuno, fino a un mese fa, avrebbe avuto difficoltà a riconoscere il grande lavoro fatto da Foucault nello spazzolare la storia contropelo, e nel farci comprendere criticamente da dove provenissero quelle forme di controllo sui nostri corpi e sulle nostre città che tutti noi abbiamo sperimentato nel nostro quotidiano: nel farci divenire, insomma, almeno in parte, quello che siamo. Poi la pandemia è entrata nelle nostre vite, e tutte quelle verità che Foucault ci mostrava sono state messe di fronte alla prova dei fatti. C’era la pandemia – un fatto – che produceva, e produce, altri fatti. Ma che ci fosse – e c’è – la pandemia porta il filosofo ottimista a mettere tra parentesi la domanda su ciò che accade o può accadere: lasciamo stare, ce ne occuperemo dopo. Ci siamo messi a leggere, ognuno con la nostra debole o forte verità, tutti con la nostra impotenza di fronte alle energie della storia che stavolta non ci si presentano come uno spirito a cavallo, ma come un qualcosa che non è neanche vita e che si aggrappa alle cellule saltando da un animale all’altro e quindi anche a noi, visto che – per quanto lo abbiamo dimenticato – sempre questo siamo, siamo stati e saremo: animali moribondi. È saltato, questo spirito della storia, e inconsapevolmente ha ucciso, mentre la cornice di cultura e di tecnica di cui noi, animali umani, ci siamo circondati, ha fatto cilecca, e ha provato a rispondere rispolverando dagli armadi vecchi arnesi per poi scoprire che nessuno qui – la scienza, la religione, la politica – sa bene cosa dire. O meglio, ognuno dice la sua convinto che sia la cosa migliore da dire. Che è poi ciò che il filosofo ottimista dice da sempre: e cioè che, comunque vada, il nostro è il migliore dei mondi, e che quindi diversamente non vale la pena neanche pensare.

Ci ha fatto paura, e ci fa paura, che nessuno sappia dirci bene come vada a finire questa storia, se noi sopravviveremo, se i nostri cari sopravviveranno, se non sopravviveranno, e se non sopravviveranno per colpa nostra. Ci fa paura pensare che dovremo vivere diversamente, e che forse non sappiamo vivere diversamente. Ci fa paura, anzi ci angoscia, tutto questo. Ci angoscia che la storia, tramite la natura, ci sia venuta a disturbare e abbia travolto tutto ciò su cui potevamo fare un qualche affidamento. E così guardiamo i grafici, ascoltiamo epidemiologi e virologi, che a volte in tutta onestà, a volte meno, dicono quello che sanno. Eseguiamo ordini, senza sottilizzare su come vengono decisi, sugli arbitri che comportano, sulle democrazie che affondano in Ungheria, e non solo: né più né meno di come già stava accadendo prima, ma con più urgenza. Ci scandalizziamo, e giustamente, che un narciso brasiliano o americano o inglese provino a governare le loro società basandosi su qualche altra fede più simile a quella della Santa Inquisizione, si tratti di dogmi neo-liberali, o feudali: come se non fossero anche questi prodotti di questo stesso nostro «secol superbo e sciocco», e di quella fiducia nel nostro essere sempre un po’ più immuni degli altri.

Ma evitiamo di guardare, pensando al peggio, l’efficacia della nostra immunità. Così come la storia di questa immunità e della nostra ricerca di immunità, che non sempre fa rima con verità, e poche volte con libertà. Facciamo di tutto per avere conferma che il nostro sia pur sempre, una volta ancora, il migliore dei mondi possibili. E pazienza se la pandemia ci costringe ad annullare quella soglia di minima resistenza interiore, che pure, per Foucault, era l’unico strumento per evitare che un potere esercitato diventi a tutti gli effetti un dominio. Pazienza, ci penseremo dopo, noi filosofi ottimisti. E così, ora che ci siamo dentro fino al collo, nella globalizzazione pandemica, ci fidiamo, e torniamo a fidarci ancor di più delle «magnifiche sorti e progressive» dell’umanità, dismettendo quello sguardo critico su noi stessi e rientrando, con le dovute precauzioni, in quello stato di minorità da cui ci siamo sentiti, per ruolo più che per professione, esentati una volta e per tutte. E dimenticando, come scriveva Foucault, che pensare criticamente significa pensare criticamente ogni giorno, analizzare storicamente i limiti che ci sono posti e sperimentare la maniera di superarli.

Anche stando in silenzio, siamo sempre oggetti e soggetti di un’utopia. Utopie nate a volte molti secoli fa, e che in precisi momenti si sono realizzate, o hanno subito accelerazioni. Utopie a cui ci aggrappiamo, che pretendiamo di incarnare, quando tutto sembra perduto. Come Foucault appunto scriveva in Sorvegliare e punire: «La città appestata, tutta percorsa da gerarchie, sorveglianze, controlli, scritturazioni, la città immobilizzata nel funzionamento di un potere estensivo che preme in modo distinto su tutti i corpi individuali – è l’utopia della città perfettamente governata». E così come accade nell’Utopia di More, un’isola separata dal resto del mondo, o ancora più nella Città del Sole di Campanella, dove ogni azione è costantemente controllata, anche nell’utopia del perfetto governo della città dolente e appestata, il controllo universale dà agli individui la sensazione di vivere, comunque, nel migliore dei mondi possibili. Nessun dubbio che il filosofo ottimista ne sarebbe il miglior cittadino. E nessun dubbio che questa utopia vorrebbe continuare a esistere in una «situazione obiettivamente eccezionale», o che necessita di «misure obiettivamente eccezionali». E anche dopo, chissà.

Il filosofo ottimista in tempi di catastrofe guarda storto la storia, e la sua utopia fa anzi di tutto per negarla. O perché il suo presente è così eccezionale da non avere paragoni nel passato, oppure perché il suo presente sa meglio di altri come affrontare una catastrofe, oppure perché lui sa come vanno le cose, senza bisogno di guardare la storia. O magari no, ma se non lo sa, di certo non può essere la storia a dirlo. Anche perché tutto è prevedibile, nel migliore dei mondi, e anche se è imprevedibile, lasciamo comunque fare chi sa. Nel frattempo non ci sono dubbi e non ce ne devono essere: «la cosa è evidente e io la sostengo», dice Pangloss a Candido che spazientito gli chiede acqua.

Sì, ma vuoi paragonare questa catastrofe con altre? – risponde sgomento un filosofo ottimista. – Questa è la nostra catastrofe! E oggi ci sarà pure qualcuno che saprà… risolverla! Che senso ha farci troppe domande? E un altro: – In fondo doveva pur accadere. Ti dirò di più, noi sapevamo che sarebbe accaduto. «Questo terremoto rispondeva Pangloss, non è cosa nuova; la città di Lima sofferse in America le stesse scosse l’anno passato: l’istessa cagione produce l’istesso effetto». – Magari non tutto andava bene, ma ora tutto andrà meglio! E comunque, meglio di così… si muore. –

Anche qui, come sempre, si può fare legittimamente come Pangloss, oppure no, avendo cioè cura di sottoporre costantemente  «la riflessione storico-critica alla prova delle pratiche concrete», come Foucault scrive a proposito, appunto, del senso stesso dell’Illuminismo. Eppure c’è stato chi ci ha provato – Nietzsche su tutti – a dire che la storia può essere dannosa o utile per la vita, a seconda che noi la utilizziamo per vedere quello che ci accade, per leggere il presente, anche quello obiettivamente eccezionale, oppure per chiuderci nei nostri polverosi scaffali cercando qualcosa che ci estranei ancor di più a un presente già estraneo. Possiamo tornare, con Pangloss, a gustare la beata sensazione di essere sempre protetti, se non da un Dio, da uno Stato, o dalla Scienza. Persino quando questi sembrano un po’ addormentati. Oppure no: e questo non implica necessariamente una qualche «fede nei Lumi», che certamente Foucault non aveva, come non aveva neanche Leopardi, e forse neanche Voltaire. Implica invece un costante lavoro critico «sui nostri limiti, cioè una fatica paziente che dia forma all’impazienza della libertà».

È sempre il tempo di domandare, di esercitare quella potenza del pensiero che è poi l’unica risorsa che l’animale umano possiede: perché forse di questo tempo  – e ancor più durante una catastrofe – ce n’è sempre troppo poco. Ma forse non è necessario: se si vuole aspettare che qualcuno ci venga a salvare, la notte è sempre lunga, e per domandare c’è sempre tempo. Anzi, è meglio che non ce ne sia proprio, di tempo: soprattutto se vogliamo disperatamente credere che, nel bel mezzo della catastrofe, la nostra è pur sempre la migliore catastrofe possibile. Aspettando di salire noi sul rogo, possiamo sempre bere un bicchiere di Porto, o magari bruciare qualcuno che ci sta antipatico, a seconda dei gusti. Noi, filosofi ottimisti.