Il governo delle relazioni: le amicizie e il Leviatano

di Gianfranco Ferraro (ITA_03.05.2020)

L’ultimo Dpcm italiano è una di quelle tracce fumanti della storia su cui una qualunque archeologia futura, interessata a capire come si è interpretato il “governo della società” nel tempo della crisi, dovrà soffermarsi. Nel presentare le misure per la “fase 2”, il testo si incaglia in un particolare che rivela in realtà molto più di quanto i suoi stessi estensori abbiano previsto. Sarebbe possibile infatti incontrare solo i “congiunti”. Nel dover spiegare in cosa questi congiunti consistano – domanda più che lecita ma evidentemente del tutto inaspettata, il che la dice lunga anche sulla cultura giuridica di chi redige i Dpcm –  i dirigenti ministeriali si sono affrettati a rispondere che il gruppo dei congiunti consistono nei «coniugi, i partner conviventi, i partner delle unioni civili, le persone che sono legate da uno stabile legame affettivo, nonché i parenti fino al sesto grado (come, per esempio, i figli dei cugini tra loro) e gli affini fino al quarto grado (come, per esempio, i cugini del coniuge)».

Ora, l’interesse di ogni testo di diritto, come sa qualunque avvocato, e appunto qualunque archeologo del diritto, si annida nel particolare: in questo caso il diavolo entra nel testo attraverso le parole «le persone che sono legate da uno stabile legame affettivo». Sono parole che riportano di per sé al vuoto e all’arbitrarietà già insita nella nozione di «congiunti». Per spiegare quest’ultima nozione, l’estensore tenta di mappare le condizioni di familiarità possibili, e non riuscendoci del tutto usa un’altra formula che rimanda, appunto, alla stabilità dell’affetto. Una formula che è però del tutto vuota, cosa inconcepibile giuridicamente, in quanto, semplicemente, inapplicabile. A meno che il diritto non decida, appunto come in questo caso, di sottrarsi a se stesso e per così dire di girare a vuoto, rimandando la presa sul reale ad altro ambito che non sia il suo: cosa inconcepibile dentro un orizzonte costituzionale, a meno che non si espliciti che questo diritto costituzionale non sia stato davvero messo tra parentesi, ciò a cui la forma giuridica del Dpcm non cede, cedendo invece – e questo è il punto – nella sostanza. Lo conferma un titolo a tutta pagina di un quotidiano nazionale che viene in aiuto degli estensori del decreto, chiarendo come dalla formula «persone legate da uno stabile legame affettivo» vadano categoricamente sottratti gli «amici». Il quotidiano riporta inoltre che, interpellate – ancora una volta, necessariamente, a causa dell’imprecisione della formula che dovrebbe spiegare la nozione del Dpcm –, delle non precisate «fonti governative» spiegano che «non si possono ritenere inclusi… gli amici». Chiaramente, un testo giornalistico non ha alcun valore giuridico e meno ancora ne hanno le imprecisate fonti ministeriali che si trovano a dover offrire il chiarimento del chiarimento del testo. Il risultato è che la formula del Dpcm non ha di per sé alcun valore giuridico, e l’estensore sottrae dunque al diritto la sua presa sul reale, tributandola necessariamente ad un campo che è posto fuori dal diritto: è precisamente ciò che accade nello stato di eccezione, dove l’esercizio del potere – o anche di un potere – viene collocato fuori dai parametri del diritto vigente.

Ciò che è però doppiamente interessante per il futuro archeologo costretto nelle sue asettiche biblioteche digitali a studiare le drammatiche pagine di questi anni è però anche l’oggetto su cui questa sottrazione del potere al diritto viene applicato: e cioè, precisamente, i legami affettivi. Un potere che si esercita attraverso l’utopia di una mappatura di questi legami, per poi, di fronte allo sfinimento di questa impresa, decidere, ora del tutto fuori dal diritto, ciò che deve o meno essere considerato come suo oggetto. Ricapitolando: se per «congiunti» potevamo stabilire un significante del tutto incongruo giuridicamente come xn, la precisazione ci dice che xn = a + b + c +… ancora una volta yn, ovvero gli «stabili legami affettivi». Nell’ulteriore spiegazione informale, “giornalistico” (non si citano fonti)-ministeriale, ci viene detto semplicemente che al numero di relazioni imprecisate yn  va sottratta un’altra componente, ovvero gli «amici», figura anche questa quanto meno ambigua in diritto. Avremo una yn – zn, e così via, che in matematica, così come nelle relazioni concrete delle persone, ci riporta ad un numero indefinito: xn = a + b + c + (yn – zn). Sarebbe più semplice giocare a dadi: salvo che il diritto non può permetterselo. Ciò che quindi decide, rivelando nascostamente il campo della decisione fuori dal diritto, finisce col rivelarsi come una voce fuori campo, appunto: «fonti ministeriali».

L’aspetto divertente, se non fosse appunto drammatico, di questo impasse giuridico rivelatore però della sostanza di cui stiamo parlando, e cioè dell’eccezionalità che si muove in ambiti limitrofi o esterni al diritto stesso, è il valore di paradigma che questo impasse acquista sia rispetto la crisi del paradigma di diritto costituzionale che questa crisi sta accelerando, sia rispetto l’oggetto su cui il potere sostanziale tenta di fare presa, e cioè il “governo della società”.

Un governo della società che è interpretato come governo delle relazioni sociali: da qui, la necessità di una topologia delle relazioniin fondo non molto differente da quella fatta dai primi psichiatri quando si trattava di isolare e nominare le forme della “malattia” mentalee il sistematico scorno rispetto questa possibilità. È precisamente in questo “scorno” degli estensori ministeriali che si annida il pericolo più profondo – quello di una società del controllo sempre più selettiva e atomizzante – e al tempo stesso la possibilità di un ribaltamento del tavolo: si possono davvero mappare le relazioni affettive? Il Dpcm ci prova, a partire però da un ulteriore sottinteso non dichiarato: il legame affettivo viene infatti identificato con un piano prettamente biologico (da qui anche le dichiarazioni delle «fonti ministeriali»). Ma questo, oltre a portarci fuori dal diritto, ci porta in un’altra direzione, ancor più pericolosa: e cioè quella della cultura su cui poggia la decisione di questa identificazione. L’estensore del Dpcm ha usato «congiunti». La realtà è che avrebbe voluto dire da subito «consanguinei», dichiarando, nel fare questo, una precisa idea di legame affettivo a cui si aggiunge, nel caso delle coppie non sposate, il legame affettivo fondato su una pratica sessuale, cioè biologica.

Il punto è che tra i nostri affetti più «stabili» ci sono proprio le amicizie. E se anzi dovessimo fare una percentuale di prossimità rispetto i nostri “congiunti” (compagni di vita, fratelli, cugini…), ciò che rende più o meno stabili questi affetti è in molti casi il «tenore di amicizia» che li attraversa. Molti «legami affettivi» sono anzi per tanti di noi più stabili nel caso di non consanguinei. Ma è ciò che precisamente l’estensore elimina dalla scena dell’«incontro». Nel disegnare delle norme intorno ad un’antropologia dell’affetto, l’estensore identifica relazioni di affetto con relazioni biologiche, e mette così tra parentesi, anzi li esclude, tutti i rapporti affettivi fondati sull’«amicizia», cioè in generale su tutte le relazioni non fondate su un presupposto, in apparenza verificabile, di scambio biologico. In questo senso, l’utopia del controllo da parte dell’estensore attiene precisamente alla «nuda vita» delle relazioni: queste e solo queste possono avvenire proprio perché possono essere accertate.

L’altro lato della medaglia di questa utopia è che il decreto ha scarsa presa sul reale, in quanto parte da presupposti che sono totalmente inapplicabili alle concrete situazioni di vita della società contemporanea. La società, che si vorrebbe ridotta a mero dato biologico-relazionale, è ormai fondata su forme di relazione che sfuggono al paradigma, semplicemente biopolitico, a cui si tende a ridurla, con cui si prova a nominarla. Nel momento in cui si accinge a “mappare” ciò che sta fuori dalla convivenza o dallo stato di famiglia – “oggetti” su cui il diritto ha ovviamente presa – viene fuori, come un incoscio a lungo tenuto a freno, una utopia che mappa delle relazioni fondandosi su assiomi del tutto ideologici, arbitrari, che rivela l’abbozzo di una idea di società, quella fondata appunto su relazioni controllabili e formalizzabili a partire da un dato biologico. Questa utopia si rivela fuori luogo perché il reale (yn-zn) da sottoporre a controllo inevitabilmente sfugge a questa pretesa di poter mappare col linguaggio del diritto ciò che sta fuori dal diritto. Di fronte all’eccezione del momento, il diritto rivela quali sono le sue capacità di “presa” sul reale, e ove queste sono nulle, o semplicemente sclerotiche, come in questo caso, non può far altro che lasciare campo libero all’arbitrio. Ed è proprio in questo campo che, da duecento anni, come ha insegnato Foucault, opera l’episteme biopolitica, con tutto il suo corollario di scienze applicate alla società e alle forme del governo.

Ora, un’episteme giuridica può legittimarsi finché ha presa sul reale: quando non ce l’ha più, come in questo caso, è destinata, presto o tardi, ad essere travolta dai fatti, incardinandosi in una forma di governo del sociale dove l’orizzonte del diritto è mantenuto come un brandello memoriale, oppure aprendo a nuove epistemi, con conseguenti diverse formazioni istituzionali e giuridiche. Ciò che i teorici liberali non accettano – come nessun sguardo epistemico può riconoscere dal proprio interno – è, di fondo, la storicità dei loro fondamenti. Nello specifico, la situazione in atto, che mostra la difficoltà di “presa” dell’epistemologia giuridica del liberalismo del ‘900, può essere estesa a molte altre “epistemologie”. La crisi che ci attraversa – e che ci rivela la nostra piccola traccia contenuta nel Dpcm – è proprio per questo, forse, meno una catastrofe e più un’apocalisse. Apocalisse proprio perché rivela le incapacità della nostra episteme giuridica, come di quella scientifica, ad avere presa sul reale: il fattore di inconoscibilità rivelatosi nell’impotenza dei vari scienziati e virologi ha un preciso parallelo nel fattore di inconoscibilità del sociale su cui il potere tenta la sua presa, muovendosi ai lati del diritto. Identico processo avviene nel quadro della teorizzazione economica, dove il fattore di inconoscibilità della crisi prossima ventura rivela le basi arbitrarie su cui l’economia politica neoliberale si fonda, rivelazione che avviene nel momento in cui i suoi teorici rinunciano alla propria neutralità scientifica in favore di una decisione politica. Nella crisi, tutti i quadri epistemologici delle scienze sociali attinenti il “governo” fanno, per così dire, un passo indietro, rivelando, in seguito all’incapacità di presa sul reale, l’assunto di base su cui si poggiano: ovvero, “si fa così e basta”.

Ma questo “basta”, nel caso delle amicizie, delle «relazioni stabili» appunto, non basta. Perché la società è, nelle sue relazioni, un xn di possibilità tali da poter a sua volta generare, di fronte alla pretesa di controllo infondato, semplicemente dei nuovi quadri epistemici. Non è un caso che tutte le crisi epistemiche abbiano sempre segnato l’inizio di qualcosa di radicalmente nuovo nel corpo della società: se “frenate”, così come il potere dell’eccezione tenta di fare, rispondendo a quello che è il suo spirito katechontico fondamentale – cioè quello di “frenare” la liberazione delle forze che portano alla fine di un quadro di governo – le forze che abitano la società, prima o poi, presentano il conto. In rarissimi casi il confronto generato da una crisi epistemica si combatte su più di un fronte. Quello che viviamo è uno dei rarissimi casi – una tempesta perfetta – in  cui vi è una molteplicità di crisi epistemiche, a cui corrispondono altrettanti fronti: la politica delle «amicizie» (già peraltro trasposte simbolicamente e virtualizzate nelle reti sociali) sarà uno di questi fronti.

Difficile forse, andando indietro nella storia, scoprire una crisi epistemiche con la stessa portata apocalittica. Forse, quella da cui nasce la stessa modernità: il movimento sotterraneo che dalla crisi del XV secolo porterà da un lato alle scoperte geografiche, dall’altro alle rivoluzioni galileiane, vedrà con Machiavelli la prima compiuta espressione dell’ambivalenza di uno sguardo rispetto il “governo della società”: uno sguardo che intende la società come oggetto (Il Principe), l’altra come soggetto del diritto (I Discorsi). La possibilità inquietante di osservare il “governo della società” da due punti di osservazione differenti sarà ereditata dalle due tradizioni della ragion di Stato e del giusnaturalismo, ma avrà nel ‘600 compiuta espressione in due delle maggiori opere filosofiche della modernità, alternativa l’una all’altra, proprio a partire da un punto differente di osservazione del “governo della società”. La prima, che assume la società come oggetto, a partire dalla sua “mappatura” nelle forme di un Leviatano che riunisce in sé gli individui impauriti per condurli docilmente alla fine del mondo, la seconda che assume invece la società come soggetto di una potenza ingovernabile e imprecisata di passioni e di relazioni a cui va lasciata libertà di espressione proprio per poter garantire il miglior governo possibile, coincidente, precisamente, con le possibilità che la natura può giocare in un dato presente. Due opere, il Leviatano di Hobbes e il Trattato Teologico-Politico di Spinoza, che, a partire da punti di osservazione differenti, ereditano il sorriso di Machiavelli e che costituiscono ancora oggi le critiche più stabili – verificabili in una situazione come questa – agli assiomi giusnaturalistici su cui Grozio aveva, proprio all’inizio del ‘600, definito la sua concezione dello Stato basata sul mitologema del “contratto”. Un mitologema che, nel momento in cui si appresta a verificare le sue basi reali, confrontandosi con le relazioni realmente esistenti nella società, si rivela nella sua fantasmaticità, come una «fantasticheria», nelle parole di Nietzsche, fallendo e ridando appunto parola ai suoi critici: Hobbes, o Spinoza, il governo della società e delle sue relazioni, oppure la società di relazioni che dice a se stessa come vuole essere governata e difesa.