HO VISTO MARADONA

di Gianfranco Ferraro (ITA_25.11.2020)

Certo, sì, è stato anche un giocatore di pallone, il migliore. Ma si capisce poco o nulla di Maradona, se non si vede quello che, col pallone, ha a che vedere solo nella misura in cui ha a che vedere con la vita.

E cioè con una cosa precisa: col guizzo che la vita riserva – sempre, o quasi sempre – nel bel mezzo del gioco di tutti i giorni. Diego Armando Maradona è stato, nel giocare su un campo e forse anche nella sua vita, innanzitutto simbolo del guizzo improvviso, ma certo, che trascina non solo chi della partita è protagonista, ma tutti quelli che la guardano e vi prendono parte, altrove.

È lo sprazzo, da cui si costruisce un disegno imprevisto e imprevedibile, è la non regola che dà giustizia a ciò che altrimenti non ne avrebbe, e la regola portata al suo regime assoluto e perciò inarrivabile. La partita con l’Inghilterra.

È lo stare in campo appunto in un gioco, come la tombola, dove non sai che numeri usciranno, ma con quelli che usciranno si può, e anzi si deve, provare sempre a fare qualcosa, per lo meno fino a che la partita non è dichiarata chiusa.

Come ora, magari. Anche se non è proprio così. In fondo sì, non ho smesso, da quando avevo sei anni, di seguire Maradona, di seguirlo con e insieme a mio padre, innanzitutto, tifoso del Napoli, ma tifoso innanzitutto di lui, di ciò che lui ha rappresentato e rappresenta per i napoletani ancora oggi: non un mito, un dio, eccetera eccetera… ma semplicemente la possibilità che tutto vada, per un giro a vuoto della storia, semplicemente diversamente da come andrebbe se qualcosa non accadesse… Lo scudetto vinto sulla Juve, appunto.

Per questo Maradona rimarrà, comm’a nu scuorn, per tutti gli Agnelli grandi e piccoli del mondo. Perché c’è sempre e sempre ci sarà, nella vita di ogni storia umana individuale e collettiva, la possibilità che qualcosa cominci a partire, a dribblare, e ad andare più veloce anche se tutto sembrerebbe prevedere il contrario. A vincere, anche. Ma non è vincere il punto, e neanche giocare bene: è evocare la possibilità che tutto, quando un “maradona”, il maradona che c’è in ogni storia umana, entra in campo, può ancora accadere.

È l’amore per l’imprevisto e l’imprevedibile che c’è in ogni istante, e quindi anche per l’attesa di quell’imprevisto che può saltare fuori – come saltava fuori Maradona – dall’istante immediatamente successivo a quello presente. Lo stesso istante in cui, per dire, si può anche morire.

È lo scherzo, non DEL destino, ma CONTRO il destino. Un dio, appunto.

Il “capello di Maradona” di San Gregorio Armeno, a Napoli, è questa cosa qui. Com’è questa cosa lo sguardo di “Maradona”. Anche quando è diventato improbabile allenatore dell’Argentina e poi di non so quale squadra araba, importava che lui ci fosse: che lui vivesse ancora – perché, diciamolo, uno che vive tante vite, ne muore altrettante – e fosse ancora uno scorno, la possibilità che tutto andasse altrimenti.

Non è uno scherzo: gli ultimi trent’anni a Napoli si è sperato che il nuovo allenatore, anche solo per un giorno, fosse lui. Per un solo giorno: si farebbe meglio a dire solo per un attimo. E non perché rappresentava un passato, non per nostalgia. Ma perché rappresentasse la possibilità di una giocata impossibile. È questa cosa qui che abbiamo perso, noi “napoletani del Napoli di Maradona”. E cioè, mezzo mondo. In fondo, il diritto ad una assurda felicità.

Che arriverà, in qualche modo, su questo dubbi non ce stanno. Solo che era più facile, con Maradona. Ce lo ricordava l’imprevedibile fatto di esistere, e di esistere ancora. Ora ce lo deve ricordare il fatto che qualcosa come “Maradona” è davvero esistito. E noi lo abbiamo visto.