Debito e pandemia. Intervista di Gianfranco Ferraro a Elettra Stimilli

[Pubblichiamo nel blog di Thomas Project l’intervista di Gianfranco Ferraro a Elettra Stimilli uscita nel n. 4 (2/2020) della nostra rivista (pp. 147-157). L’intero volume dal titolo VIVERE LA CATASTROFE DEL RESPIRO, TRA UTOPIA E DISTOPIA è consultabile qui ]

 

[FERRARO-STIMILLI 02/04/2021_ITA]

Una parte cruciale del tuo lavoro filosofico è stato dedicato alla questione del «debito». Un debito che tu hai sottratto ad una dimensione puramente economica, mostrandone il lato profondamente ontologico. Fino a un anno fa, questa dimensione era immediatamente comprensibile, nelle sue varie forme, così come nel suo arché. Tante e diverse pratiche dell’«essere in debito», di cui il capitalismo weberiano, e poi quello neo- liberale, sarebbero solo due declinazioni. Con l’arrivo della pandemia, sembrano essere apparse ulteriori modalità: l’essere in debito connaturato alla civiltà dell’Antropocene, l’essere in debito delle nuove generazioni, o persino di quelle non ancora nate, nei confronti delle presenti. Siamo ancora una società del debito? Quale debito stiamo creando?

Normalmente siamo stati abituati a pensare al debito come a una questione economica, una transazione simile allo scambio, in cui ciò che è stato preso in prestito viene successivamente reso rispettando le condizioni date sulla base di un rapporto alla pari. A ben guardare, il debito ha a che fare con una dinamica più complessa. La complessità qui in gioco viene chiaramente alla luce nel momento in cui si intraprende un’indagine genealogica. Di qui l’importanza del lavoro di Friedrich Nietzsche che, nella Genealogia della morale, ha mostrato con nettezza come il debito sia un vincolo che coinvolge relazioni meno lineari rispetto a quelle a cui si è abituati a pensare quando si hanno in mente le relazioni commerciali connesse allo scambio. All’origine di questa condizione vincolante è stata persino individuata una relazione simile a quella che unisce, nella religione, gli uomini agli dei: un rapporto di dipendenza nei confronti di potenze superiori, in cui i viventi sono obbligati a riscattare, nel corso della vita, l’energia vitale di cui sono stati fatti depositari. Come vincolo, il debito è fondamentalmente la manifestazione di un rapporto di forza, di un legame sociale che implica un efficace dispositivo di potere. Basti pensare all’espressione «essere in debito», che non vuol dire soltanto «avere» dei debiti, ma esprime anche qualcosa che, in definitiva, non si può possedere, ma da cui piuttosto si è posseduti, assoggettati: letteralmente «essere in debito» indica un «debito di vita» che non è possibile eccedere perché sovrasta.

Questo è tanto più evidente ai nostri giorni quando, anche nelle dinamiche economiche, il debito ha preso il sopravvento sullo scambio. Oggi più che mai «essere in debito» coincide con la condizione in cui non è possibile entrare soltanto in un dato momento, perché si identifica con un’eredità acquisita ancora prima di venire all’esistenza, con lo stato in cui si nasce a prescindere dalla propria situazione di povertà o ricchezza. Ad esempio, anche chi non ha mai contratto volontariamente debiti, nasce indebitato in Stati che trasmettono il proprio debito a coloro che ne fanno parte prima ancora di venire al mondo. Ma al mutare dei contesti geografici, politici e sociali, a seconda che le protezioni statali siano più o meno presenti, cambia anche il ruolo e l’entità del debito. Ad esempio, un giovane migrante africano che riesce ad arrivare vivo sulle coste italiane – esperienza sempre più difficile dati gli attuali accordi internazionali – è costretto a pagare per molti anni il debito contratto con chi lo ha trasportato. Gli studenti americani, molto prima di cominciare a lavorare, si ritrovano indebitati con le banche, che hanno anticipato il pagamento delle loro tasse universitarie, e sanno già che per diversi anni dovranno destinare parte dei loro eventuali guadagni per riscattare il loro debito. Si può dire che oggi, come forse mai prima, si fa esperienza del fatto che il debito può precedere la vita non solo in senso temporale, ma può determinarla, esponendola persino al rischio di morte. In questo senso si può pensare che il debito sia un’eredità: un’eredità estremamente difficile da gestire e, al tempo stesso, impossibile da rifiutare. Ma una cosa è chiara: non esiste una soggettività universale e neutra del debito, né una relazione tra debitore e creditore che possa prescindere dalle situazioni materiali, dalle differenze di genere, classe e dalle definizioni razziali. Perché il debito non neutralizza queste differenze, piuttosto le sfrutta.

Negli ultimi anni, poi, il debito è stato esplicitamente connesso alla colpa, all’infrazione di impegni presi, soprattutto a partire dal momento in cui l’Unione Europea si è trovata direttamente coinvolta nel dissesto economico mondiale. Eppure, anche in questo caso, come ho cercato di mostrare nel mio lavoro, il debito non è risultato tanto o soltanto una condizione che è possibile emendare, ripagando il denaro dovuto – come l’ingiunzione autoritaria dei sacrifici imposti dalle politiche dell’austerity avrebbe voluto indicare. Si è trattato di qualcosa di più complesso che ha messo in gioco la vita in forme forse mai viste fino ad ora.

Con il predominio delle politiche neoliberiste il debito è stato trasformato in investimento e dunque in elemento propulsore per una crescita illimitata. Ma questa situazione, per molto tempo presentata come uno stato di liberazione, ha finito per rivelarsi una condizione totalmente negativa, in cui i singoli, oltre ad impoverirsi in numero sempre crescente, impongono a se stessi la necessità di investire sul proprio «capitale umano» e dunque di vivere conformandosi a una forma di valutazione che, invece di potenziare, svaluta. In gioco è un processo di sfruttamento pervasivo che non solo tende ad assorbire tutti gli ambiti della vita umana, ma che si applica anche alla natura in modo onnicomprensivo. Più che di Antropocene, però, credo che a questo proposito varrebbe forse la pena parlare di Capitalocene, come ad esempio fa lo storico dell’ambiente e docente di economia politica Jason Moore, che individua il problema non tanto nel legame violento tra la specie umana come tale e la natura, quanto piuttosto nel rapporto storicamente determinato tra dinamiche sociali ed elementi naturali, che costituisce l’attuale forma di capitalismo, in questo specifico sviluppo storico.

Nella sua forma attuale infatti il capitalismo è un regime ecologico, in cui lo sfruttamento e la creazione di valore non avvengono sulla natura, ma attraverso di essa – cioè all’interno delle relazioni socio-naturali che emergono dall’articolazione variabile del capitale, del potere e dell’ambiente. Si tratta quindi di analizzare la forma storica di questa articolazione – quello che Moore chiama, appunto, «Capitalocene» – per affrontare l’urgenza dei disastri ambientali, di cui la pandemia in atto non è altro che l’ultima estrema espressione. Perché anche il Covid-19 non può essere affrontato come un fenomeno puramente biologico, privo di relazione con il contesto in cui si è sviluppato. Il Covid-19 è un sintomo della devastazione ecologica in atto, direttamente interconnessa alle nuove forme del capitalismo globale; di quel capitalismo che tende sempre più a ridurre le differenze e le complessità ambientali in grado di interrompere le catene di trasmissione di eventuali agenti patogeni, accelerandone le mutazioni adattative e quindi selezionando varianti più forti e aggressive, come quella del virus che ha scatenato l’attuale pandemia mondiale. Quella che viviamo, dunque, non è solo una catastrofe naturale. E la sopravvivenza biologica è direttamente connessa agli sviluppi politici della vita economica che si alimenta di un debito infinito: in definitiva la nostra triste eredità per le generazioni future, che giustamente reclamano il loro credito.

Infatti, sembra che la crisi pandemica sta funzionando come una sorta di cartina al tornasole delle innumerevoli crisi che la nostra società attraversa già da tempo. A distanza di vari mesi dall’apparizione del virus, i governi delle più differenti aree politiche appaiono divisi tra due opposte pulsioni: quella indirizzata ad una cura della società – che implica, quasi in contraccambio, un maggior controllo – e quella indirizzata ad un completo laissez faire – che privilegia le istanze economiche. In fondo, sembra di rivedere l’antico conflitto descritto da Foucault tra le due diverse maniere di concepire il «governo dei viventi»: quello dello Stato e quello di una economia liberale che per un lungo periodo della nostra storia è sembrato coincidere col primo. Cos’è oggi il governo dei viventi?

Credo che uno degli aspetti più interessanti dell’ultima fase degli studi di Foucault consista proprio nel fatto di aver spostato l’attenzione dal «potere» al «governo». Per Foucault è il governo – sempre e fondamentalmente inteso come «governo dei viventi» appunto – il mezzo attraverso cui la politica storicamente si dispiega nelle forme istituite del potere e che, nella sua configurazione economica, trova la sua versione estrema nelle politiche neoliberiste, di cui egli è stato tra i primi a evidenziare la potenza. In questo contesto ridefinisce il ruolo dello Stato nella politica moderna, dimostrando come l’istituzione statale non sia altro che un modo tra gli altri di governare e non l’essenza stessa del politico. La solidità di questa istituzione dipende piuttosto dalla trama articolata e complessa di quelle pratiche di governo di cui è il risultato. Da qui il suo interesse nel rileggere in maniera incrociata la storia dello Stato moderno, nella sua duplice versione, liberale e socialdemocratica, e la storia dell’istituzione economico-politica del mercato, fino ai suoi risvolti neoliberisti. Economia e politica, per Foucault, sono sempre strettamente connesse: in altre parole, non esiste un ambito autonomo della politica che non sia anche governo.

Mi sembra che la stretta e imprescindibile connessione tra questi due ambiti sia venuta oggi chiaramente all’evidenza con la pandemia mondiale. La crisi che si è sviluppata in seguito alla necessità di far fronte ai problemi emersi mette nettamente in luce come non possa esistere politica senza governo, e viceversa. Per molti e differenti versi, le società occidentali hanno continuamente tentato di separare questi due ambiti, in fondo per semplificare il complesso rapporto tra libertà e potere, a cui pure sono state in grado di dar espressione, talvolta anche smascherando come tra i due non possa mai esserci fino in fondo un rapporto di esclusione: piuttosto un gioco più tortuoso, in cui la libertà appare la stessa condizione di esistenza delle forme di istituite di potere.

Il contesto in cui la pandemia si è diffusa in Occidente è quello di democrazie con strutture istituzionali liberali, ma anche promotrici ormai da diversi decenni di politiche neoliberiste, tali cioè per cui il potere si esercita (e a diversi livelli reprime) proprio affermando la libertà. Una condizione che ha prodotto profonde forme di disagio connesse alle capillari modalità di concorrenza e di sperequazione economica che hanno caratterizzato le nostre società. Da qui la necessità, emersa soprattutto con la rivendicazione di istanze sovraniste, di reagire all’espressione apparentemente libertaria della globalizzazione. Una richiesta che si è dimostrata interessata unicamente a promuovere dispositivi securitari, volti a fomentare la paura della libertà al fine di dominarla, senza per questo di fatto interrompere le politiche neoliberiste, che sono così continuate assumendo una veste differente.

Ciò è emerso con estrema chiarezza nel momento in cui con la pandemia i sovranisti hanno iniziato a difendere il modello di libertà che è a fondamento dello Stato liberale classico: una forma di libertà, cioè, intesa come totale assenza di impedimenti, come possibilità di agire senza ostacoli, senza nessuna interferenza sulle volontà personali, che risultano così tanto più libere, quanto più lo Stato non interviene a moderarle o a regolarle, limitandosi a garantire e a proteggere la libera iniziativa – economica – dei privati, cioè di coloro che possono dar voce alle loro rivendicazioni, perché in primo luogo in possesso del diritto di cittadinanza. Ma la difesa dell’inviolabilità delle libertà individuali, che è alla base delle dimostrazioni dei cosiddetti negazionisti, fa anche emergere la contraddizione implicita in questo approccio. La pandemia infatti ha portato chiaramente all’evidenza come nessuno sia realmente indipendente e autonomo; ha fatto emergere l’inevitabile vulnerabilità delle nostre vite, una radicale dipendenza degli uni agli altri, da cui è impossibile prescindere.

Se dunque la pandemia è senza dubbio anche il sintomo di una profonda crisi degli Stati nazionali liberali, che finiscono per utilizzare gli strumenti politici più rischiosi dello Stato di diritto – come la legislazione per decreti eccezionali tristemente noti nella storia occidentale per i trascorsi risvolti totalitari – la questione tuttavia sembra più complessa, e riguarda la libertà non tanto come condizione individuale da difendere, come diritto individuale negato, ma soprattutto come pratica collettiva condivisa. Questa, credo, è la premessa a partire da cui, in questi mesi di pandemia, è forse possibile prendere parte in maniera differente al «governo dei viventi», in cui si è letteralmente trasformata la politica, senza consentire che si irrigidisca in un mero dispositivo di dominio. In gioco, infatti, è la capacità di rapportarsi in modo nuovo a ciascuna vita non tanto in quanto ambito individuale, ma come comune campo di relazioni, come condizione, mobile, molteplice, plurale, e per questo sempre fragile, ma anche in grado di potenziarsi proprio a partire da questa sua estrema vulnerabilità.

La filosofia italiana è stata indubbiamente una delle protagoniste del lavoro teorico di questi mesi: diversi autori – tu stessa, Donatella Di Cesare, Roberto Esposito, Franco Berardi «Bifo» e Giorgio Agamben, solo per nominare i pensatori internazionalmente più conosciuti e riconosciuti – hanno animato il dibattito. La filosofia, e il pensiero italiano, proprio nella sua capacità di «ascolto» politico, sembrano aver contraddetto l’adagio hegeliano, per cui la filosofia arriva sempre a cose fatte, quasi a registrare l’ineluttabilità di un percorso storico. Qual è la tua percezione del dibattito in corso, dal punto di vista filosofico, e il ruolo che sta avendo il pensiero italiano?

Già da diversi decenni la filosofia italiana gode di un certo interesse in ambito internazionale, almeno da quando la tradizione analitica, da un lato, e quella continentale, dall’altro – sia nella sua versione tedesca, con la teoria critica o l’ermeneutica, sia in quella francese, con la decostruzione – sembravano bloccate all’interno di un percorso autoreferenziale senza più presa sul reale. Si può dire che l’interesse per la filosofia italiana nel dibattito internazionale degli ultimi anni sia nato dal suo essere radicalmente invischiata con la storia e con la politica, fin quasi ad anticipare i fatti più che a registrarne l’ineluttabilità. Basti pensare, ad esempio, per menzionare i nomi da te citati, al paradigma immunitario elaborato da Roberto Esposito, ripreso da Donatella Di Cesare e oggi divenuto di grande attualità in seguito alla pandemia. L’ambivalente relazione tra «communitas» e «immunitas», in cui i dispositivi politici svolgono la funzione immunitaria di neutralizzazione di un bios tutt’altro che «naturalistico», risulta in questo contesto anche all’origine di contrasti vitali, persino di rivolte, in grado di alimentare forme di comunità capaci di immunizzarsi dagli eccessi delle stesse immunizzazioni.

Anche il lessico «eccezionalista» introdotto da Giorgio Agamben con la pubblicazione, nel 1995, di Homo sacer, ha anticipato gli eventi. Dopo l’attentato alle Torri Gemelle del 2001, è infatti risultato imprescindibile e per molti versi ha continuato a rimanere tale, ad esempio dopo gli attentati di Parigi del novembre 2015. Piuttosto problematica è apparsa invece, ai miei occhi, la sua statica riproposizione, nell’attuale contesto della pandemia, in critiche rivolte da Agamben contro le limitazioni delle libertà individuali, secondo lui, messe a repentaglio dai decreti eccezionali promulgati dagli Stati in seguito alla diffusione del Covid-19. Perché – mi sono chiesta – trovarsi ad appoggiare le stesse posizioni delle destre globali, in un imbarazzante sostegno da parte della stampa sovranista delle critiche agambeniane e in un altrettanto imbarazzante silenzio (assenso?) da parte di Agamben? La mossa di Franco Berardi «Bifo», ad esempio, che ha provocatoriamente interrogato i Millennials sulla loro – almeno in apparenza – acritica accettazione del lockdown, seppure assunta in tono in certo modo simile a quello di Agamben, era comunque orientata a dar voce a forme di solidarietà sociale. Agamben mi è invece sembrato unicamente interessato a contrastare le norme eccezionali emanate dai singoli Stati che, comprimendo tutti i diritti a favore di quello alla sopravvivenza, dal suo punto di vista, non hanno fatto altro che riproporre una riedizione biopolitica del Leviatano. Una lettura che credo perda completamente di vista i fenomeni all’origine dell’attuale pandemia, il ruolo preminente assunto sul piano strutturale dell’economia dalle biopolitiche governamentali, l’accelerazione dei problemi ambientali emersi in seguito al prevalere delle amministrazioni neoliberiste globali. La statica riproposizione in questo contesto del lessico eccezionalista, pure in parte comprensibile rispetto alle modalità delle misure prese, non sembra sufficiente per un’analisi critica della nostra epoca, se privata di qualsiasi determinazione storica, che unicamente può impedire di ricorrere all’utilizzo di presupposti che finiscono per risultare metafisici, in quanto genericamente valevoli per una forma politica monoliticamente sempre uguale a se stessa. La prospettiva di Agamben rischia di rimanere interna a quella visione che intende condannare, quella dell’Uomo bianco maschio occidentale, intrappolato dagli stessi apparati che vorrebbe dominare, perdendo così di vista la possibilità di individuare prospettive differenti, plastiche, molteplici e mutevoli, all’origine di rapporti di forza diversi. Una dimensione interna al dibattito italiano e oggi ripresa da chi ha interesse a rendere dinamicamente politico quell’ambito che, nella statica riproposizione del paradigma agambeniano, verrebbe univocamente identificato con il dominio neutro della «nuda vita».

Una delle questioni da te affrontate nel corso degli ultimi anni è stata certamente quella della persistenza di un elemento teologico-politico fin dentro la forme più diverse della secolarizzazione occidentale. Di fondo, la teologia politica appare quasi come un rimosso del pensiero occidentale. Dove individueresti, oggi, questa persistenza?

 Per un lungo periodo, in larga misura coincidente con la modernità, il mondo occidentale ha vissuto nella convinzione che la questione del rapporto tra religione e politica fosse risolta nella distinzione tra la sfera pubblica dello Stato e la sfera privata della fede. Negli ultimi decenni, però, le dinamiche della globalizzazione hanno fatto esplodere le difficoltà insite in questa convinzione; un convincimento che è apparso poco elaborato dall’Occidente moderno o che comunque è risultato costruito sulla base di lacune e occultamenti. Fare chiarezza su questo punto apparentemente acquisito è forse uno dei compiti che spetta alle attuali società occidentali, in vista di un rinnovamento che faccia tesoro delle conquiste e degli errori del passato.

Negli ultimi anni nuove istanze religiose si sono affermate sulla scena pubblica della politica, evidenziando la necessità di problematizzare l’idea della modernità come epoca compiutamente secolarizzata. Ma la relazione tra politica e religione qui in gioco sembra diversa rispetto a quella in questione nella definizione della «teologia politica» elaborata da Carl Schmitt e successivamente ripresa da altri autori, seppure in maniera critica. Per mettere a fuoco questa differenza credo sia opportuno, ad esempio, soffermarsi sui modi attraverso cui elementi considerati solitamente estrinseci alla vita strettamente economica siano emersi progressivamente in primo piano, tanto da porre in questione la visione dell’economia implicita nel paradigma schmittiano, in quanto dinamica neutralizzante le istanze teologico politiche.

Il punto in questione, secondo me, concerne in particolare il fatto che il nesso incertezza/fiducia sia divenuto il dispositivo alla base del potere economico globale, facendo del mercato l’istituzione predominante e il punto di riferimento della stessa normazione politica; una dinamica del tutto affine alla fede in gioco nell’esperienza religiosa, all’interno della quale sono riconducibili anche i meccanismi d’incertezza non stimabile che determinano l’andamento dei mercati finanziari. Si tratta di un fenomeno complesso, che si è progressivamente esasperato nella forma oggi conosciuta. Ciò che è interessante notare è il fatto che questo processo si è sviluppato contemporaneamente e parallelamente alla crescita, in questi ultimi decenni, delle affiliazioni alle comunità religiose come uno dei principali fattori di aggregazione e di identificazione politica e culturale: una situazione che ha direttamente coinvolto gli assetti politici internazionali e ha rimesso seriamente in discussione il distacco della religione, che aveva caratterizzato la modernità e su cui era convenuto il dibattito novecentesco sul tema.

L’affermazione su scala globale di una forma istituzionale economico- amministrativa e l’estensione della razionalità imprenditoriale a tutti gli ambiti pubblici e privati, al dominio politico, sociale, oltre che al campo strettamente economico, sono i presupposti di questo cambiamento profondo. Una trasformazione che non ha coinvolto solo l’economia e gli assetti istituzionali, ma ha investito anche le vite dei singoli. Un inedito rapporto tra le modalità di esistenza dei singoli e la gestione economica globale è emerso infatti in maniera preponderante. È in questo contesto che elementi normalmente ritenuti non appartenenti alla vita economica sono venuti progressivamente in primo piano: una dinamica fondamentalmente religiosa, come la fiducia nei mercati, è sempre più risultata il dispositivo che ha permesso al potere economico di affermarsi in maniera globale. La fenomenologia politica dell’Occidente globalizzato e neoliberista, da un lato, si allora è presentata nella sua veste «ultrasecolarizzata». D’altro lato, però, le dinamiche religiose interne al potere economico sono risultate sempre più evidenti e lo stesso processo di secolarizzazione che aveva caratterizzato il mondo occidentale moderno è stato rimesso in discussione.

Fondamentale risulta allora, dal mio punto di vista, un’analisi della trasformazione «culturale», prima ancora che «economica», che è al cuore di questo processo: un’indagine imprescindibile per comprendere il fenomeno della «fede nei mercati» come principale dispositivo delle politiche globali e per svelare i meccanismi religiosi che governano l’epoca neoliberale in maniera differente rispetto ai presupposti teologico- politici alla base dell’istituzione moderna dello Stato nazionale. La differenza fondamentale è che quello che qui è in gioco non è la ripresa di astratte dinamiche teologiche, ma l’utilizzo di pratiche immanenti alle esperienze religiose, che nell’attuale conformazione dell’economia si sono tradotte in pratiche di vita. Con le politiche neoliberiste, infatti, dar pienamente valore alla vita corrisponde alla stessa valorizzazione del capitale, rendendo così possibile per ciascuno di diventare un «capitale umano». In questo processo di adesione fiduciaria al capitale che è parte integrante della vita di ciascuno/a, le capacità individuali, di per sé potenzialmente aperte, vengono continuamente trasformate nella frustrazione di non valorizzarsi abbastanza. Una costante autocritica che immediatamente si traduce nella possibilità di investire su ciò che risulta una mancanza. Forse l’esempio più chiaro a questo proposito è la logica dei debiti e dei crediti applicata alla formazione, una pratica fiduciaria di (s)valutazione del sapere oggi, purtroppo, all’ordine del giorno.

Riprendendo questa tua ultima riflessione, è vero che, in pochi mesi, le strutture di formazione dell’intero globo – pensiamo alle scuole, ma anche alle università – hanno dovuto fare fronte a delle forme inedite: il luogo formativo è risultato quasi accessorio rispetto la formazione in sé. Qual è la tua posizione rispetto il nostro presente e il nostro futuro di studenti o di formatori?

Ecco, appunto, tra gli aspetti più scottanti che sono emersi con la pandemia c’è il tema della formazione. Le istituzioni deputate alla formazione, ormai da anni trasformate in maniera profonda, come dicevo, in senso aziendale, non solo si sono trovate a confrontarsi con una forma di didattica a distanza, che ha isolato milioni di giovani e bambini, senza un’adeguata elaborazione politica del peso sociale legato a questo processo, ma hanno anche dovuto subire un ruolo subordinato rispetto alle priorità del mercato. Un tragico segno di miopia di questo tempo ingrato, che non riesce a trovare la strada per presentarsi a quello che Benjamin chiama «appuntamento misterioso tra le generazioni». Non va dimenticato, però, che insegnanti, studenti e studentesse hanno per lo più stretto un patto parallelo che ha permesso di trasformare in forma attiva un confinamento, che di per sé ha portato alla luce disuguaglianze economiche, disagi sociali e solitudini profonde. Un patto che si è forse dimostrato più potente della subordinazione subita, che potrebbe essere il trampolino di lancio per nuove alleanze; quelle stesse che le nuove generazioni reclamano ormai da tempo e di cui hanno anche saputo dare prova in questi mesi, nonostante le critiche pesanti che sono state loro rivolte, dopo essere state per prime sacrificate.

Pur affrontando tematiche differenti, Thomas Project non smette di essere una rivista indirizzata a studi sul pensiero utopico. Può esistere ancora uno «spirito dell’utopia»? Dove lo individueresti? In molti, inoltre, definiscono il presente come una realizzazione distopica, in effetti già immaginata nel corso degli ultimi decenni. Concordi? Credi che il futuro ci vedrà dentro una forma di vita ancora più distopica?

 Apprezzo molto lo spirito utopico del vostro progetto. Il rapporto tra utopia e distopia mi ricorda un’altra relazione su cui si è discusso molto negli ultimi anni: vale a dire la relazione tra rivoluzione e controrivoluzione. La controrivoluzione che ha fatto seguito alle rivoluzioni del ’68 ha avuto origine, secondo molte interpretazioni, da un processo di assimilazione all’interno dei meccanismi di potere delle spinte utopiche che avevano animato i moti rivoluzionari della fine degli anni Sessanta.

Forse, il problema dell’utopia è che essa è stata troppo spesso connessa alla dimensione del tempo, al progetto di una realtà storico-politica da realizzare nel futuro. Inoltre, com’è noto, i progetti utopici immaginati in età moderna avrebbero dovuto essere realizzati secondo modelli razionali di prevedibilità e di controllo. Un processo che ha sempre gettato una luce sinistra su queste possibili realizzazioni, per quanto fondamentali potessero essere gli intenti da cui erano mosse: libertà, uguaglianza, giustizia, ecc.

Credo che uno dei molti aspetti ancora validi delle utopie del ’68 e non del tutto inglobati negli attuali meccanismi di potere sia la potenza utopica del corpo rivendicata in particolare dal movimento femminista: il corpo individuale non come possesso privato, ma come corpo politico. Il corpo come punto di emergenza, origine di una capacità non sintetica dei soggetti. In quanto dimensione non unitaria di ogni io, il corpo non costituisce solo, per il pensiero femminista, una critica al dominio patriarcale, ma è anche il mezzo per sperimentare nuove possibili relazioni politiche e sociali. Il corpo, dunque, come luogo utopico, in quanto crinale indissolubile di convergenza tra ambito pubblico e dominio privato. Il corpo come esperienza di utopie possibili.