Stato di diritto e stato di minorità: etica della responsabilità e responsabilità condivisa

di Gianfranco Ferraro ITA 27.07.2021

Chiarendo cosa intendesse per “illuminismo”, Kant spiegava che si trattava di un movimento di fuoriuscita dell’umanità dal suo stato di minorità, di liberazione da quella delega della direzione della sua coscienza che i secoli precedenti avevano conosciuto. Come tale, l’Illuminismo interrogava non solo ogni individuo, la responsabilità di ogni individuo di fronte a se stesso, ma anche la responsabilità dell’umanità di fronte le sue tecniche, tecniche – come lo Stato appunto – che dovevano essere piegate a questo movimento, per sostenerlo, appunto, nella sua liberazione. Qualunque potere assoluto dello Stato doveva accettare come condizione questo vincolo, questa responsabilità: una responsabilità che si doveva manifestare nell’esercizio senza condizioni del diritto a vagliare pubblicamente l’operato di chi governa. Persino il dispotismo deve misurarsi, per legittimarsi, con questo diritto. Figlio ultimo di questo movimento, lo Stato di diritto si basa appunto su dei diritti che vengono riconosciuti al momento della sua costituzione: e compito della sua stessa costituzione è quello di provvedere a difendere e a legittimare questi diritti, non in astratto, ma attraverso il loro costante esercizio. E se è vero che, in astratto, non esistono diritti che non possano essere sostituiti, alterati e sospesi, è anche vero che la premessa perché questo accada è la materialità storica dei processi costituenti. Al di fuori di questi, il Diritto impone una maglia che si può tendere e tirare, ma fino a un certo punto. Può accadere, e di fondo tutta la storia moderna lo testimonia, come al mutare delle istituzioni, il Diritto mantenga in tutto o in parte alcune delle sue forme. La storia giuridica non corrisponde alla storia istituzionale.

La pandemia rivela il suo carattere apocalittico proprio perché interseca un momento di crisi profonda delle istituzioni che lo Stato di diritto si è storicamente dato: una crisi che è data dal venir meno della base materiale, economica, su cui esso si è, nel bene e nel male, fondato. Del resto, precisamente ogni qual volta questa base materiale si è progressivamente impoverita, è riemerso nella storia degli ultimi due secoli il fantasma di un potere che si vorrebbe dominus in grado di trascendere le istituzioni e, con esse, la stessa maglia del diritto pregresso. A questa ripresentazione di una trascendenza assoluta ha fatto storicamente da contrappeso la possibilità di un’altra trascendenza, quella della persona come prodotto del suo stesso lavoro, della sua attività, a sua volta relazionata con l’attività e il lavoro di altri: l’obiettivo di eliminare quanti più ostacoli possibili all’espressione del cittadino come prodotto del suo fare riunisce forse meglio di ogni altra cosa il senso progressivo e progressista di una Costituzione, come quella italiana, nata dall’incontro tra le due matrici del cattolicesimo popolare e del movimento operaio.

Il diritto che così tutela il cittadino è dato da due premesse tra loro interconnesse: da una parte il fatto che il diritto di un cittadino – tra cui quello alla salute o alla proprietà privata, laddove questa non contraddica il bene collettivo – è uguale a quello di ogni altro; dall’altro che tutti i cittadini, proprio in quanto cittadini dello Stato, condividano – ad esempio attraverso l’equa contribuzione fiscale – la necessità di rimuovere ogni ostacolo affinché quei diritti individuali vengano tutelati. Diritti uguali per tutti, dunque, fondati sulla capacità dello Stato di eliminare ogni ostacolo al loro adempimento. Tutti i “doveri” del cittadino risiedono per così dire in questo: nel far sì che il diritto dell’altro possa essere liberamente esercitato. Il nodo, su cui si inserisce, per inciso, anche la cialtronesca, ancorché pericolosa, trovata italiana del green pass sta tutto qui: nel fatto che la difesa di un diritto alla salute venga surrettiziamente tutelato attraverso un dispositivo che è coattivo, ma che pretende di non esserlo, che anzi, non può esserlo. Per essere applicabile, una misura dev’essere infatti verificabile e sanzionabile, e verificata e sanzionata precisamente da quell’apparato istituzionale – forze di polizia o personale sanitario – deputato a farlo.

Al di fuori di questa rete – questa sì “sanitaria” nei confronti del diritto – si entra in un limbo da cui difficilmente si esce: si crea invece, da una parte, un pericoloso precedente, a cui, come già accaduto in passato, una sentenza della Corte costituzionale dovrà necessariamente ribattere, dall’altra, una situazione per la quale il diritto fondamentale non viene invece tutelato.

In questo senso, l’unico modo di tutelare quel diritto in modo uguale per tutti i cittadini è quello di autorizzare, come in altri casi, un obbligo che sia, appunto, verificabile e sanzionabile.

Questo implicherebbe, naturalmente, proprio perché di uno Stato di diritto si tratta, che nel momento stesso in cui si istituisce l’obbligo, lo Stato tuteli il cittadino anche dalle possibili conseguenze avverse di quell’obbligo. Ed è qui che la macchina istituzionale gira a vuoto, non assumendosi la responsabilità piena di quel diritto che pretenderebbe di voler difendere. L’effetto perverso di una istituzione che si sottrae alla sua responsabilità di tutelare i diritti e che si sottrae, in definitiva, ad un governo responsabile perché controllabile, è quello di delegittimare nella società la stessa istituzione e di mistificare il contenuto stesso del diritto: da qui, credo, la moralizzazione e la politicizzazione di qualunque contenuto, cui stiamo assistendo in questi giorni.

Non solo il diritto per cui lo Stato è nato non è tutelato in modo uguale, ma lo Stato si dimostra al contrario capace di imporre un diritto disuguale. Se qualcosa non si può governare si finge di farlo: riappare così sul teatro della storia tardo moderna il fantasma del re malato, che fonda sulla sua stessa malattia la propria arte del governo: “e mostro d’esser pio quanto più mi comporto da demonio”. Max Weber parlava di una “etica della resposabilità” che dovrebbe animare chi ha compiti politici: una capacità di sguardo lungo, complessivo, volto alla difesa della sostanza stessa dello Stato. In questo senso, l’etica della responsabilità era per per il filosofo tedesco, fin troppo consapevole della fragilità su cui si reggeva la repubblica weimariana, l’equivalente in uno Stato di diritto della virtù del Principe rinascimentale. Ma se in uno Stato di diritto ciò che dev’essere tutelato è la trama dei diritti, pena la sua stessa delegittimazione, un’etica della responsabilità dev’essere sempre un’etica della responsabilità condivisa, mediata. Per esercitarla, chi governa deve chiedere al cittadino di essere responsabile, né più né meno di quanto non lo sia egli stesso, esercitando, insieme, tutti i diritti che la implicano.

Di fronte alla deresponsabilizzazione dello Stato crollano i presupposti di qualunque etica della responsabilità civile. Ed è proprio su questa metodica sottrazione alla responsabilità – a cui ci è stato chiesto di aderire negli ultimi trent’anni – che nascono i presupposti di quel fantasma statuale che, quanto più sa di non poter governare davvero, tanto più pretende di farlo svincolandosi dal diritto. Dall’altro lato non rimane appunto che la fragile, indifesa soglia del diritto su cui solo si può fondare una responsabilità condivisa: per poterla difendere come propria, per poter vigilare su questa responsabilità, il cittadino deve però essere trattato come tale, essere assunto come il soggetto stesso dello Stato di diritto, che sa che non tutto può essere governato, che nessun governo può essere davvero assoluto a meno di non volergli attribuire una delega in bianco. Un’etica della responsabilità nasce solo nello Stato di diritto e solo su di essa può in definitiva fondarsi uno Stato di diritto, fragile creatura di quel movimento che pretende di far uscire tutti, e non solo qualcuno, da uno stato di minorità. E assumere il cittadino come soggetto del suo governo implica fare i conti fino in fondo con il fantasma moderno dello Stato, che, di fronte a una crisi, determina semplicemente: si fa così e basta. In uno Stato di diritto, ci si assume la responsabilità nel momento stesso in cui la si chiede. Si dice la verità, senza temere che questa possa delegittimare le scelte. Si dice che non si conosce la verità, se non la si conosce. Si governa insieme, mostrando tutta l’umana fragilità del potere. Si assume lo Stato, e le sue scelte, come prodotto di una mediazione, e non come un direttore di coscienza.