Abitare il presente: una lettura di “Maintenant” del Comité invisible

Amador Fernández-Savater [ITA_29.01.18] [pdf]

 

“La sorprendente realtà delle cose / è la mia quotidiana scoperta / Tutte le cose sono quello che sono, / ed è difficile spiegare a qualcuno come questo mi renda felice / e quanto mi basti. / Basta esistere per sentirsi completo”

(Alberto Caeiro)

 

Il pensiero critico rimprovera alla nostra società di vivere schiacciata in un “presente perpetuo”: un presente chiuso in se stesso, senza nessuna memoria del passato né progetto di futuro. Il nostro problema, in questa prospettiva, è che viviamo a breve termine, nell’immediato, con il presente come unico orizzonte possibile. Soprattutto le persone più giovani. E quello che ci manca è recuperare il “senso storico” – perché solo il passato rischiara il presente – e la facoltà della speranza, l’apertura ad altri futuri possibili.

Ma ne siamo sicuri? Viviamo realmente collocati nel presente, è questo il nostro problema?

Non si direbbe, a considerare la quantità di persone sottoposte oggi a terapia per recuperare la capacità di vivere qui e ora, in quanto la loro testa non smette di viaggiare tra l’atteso e il possibile: mail a cui rispondere, consegne da concludere, nuovi progetti da aprire, etc…

Non si direbbe, se consideriamo l’estensione della cosiddetta sindrome FOMO (fear of missing out), quella sensazione ricorrente di “stare perdendoti qualcosa”, che “la vita della maggioranza sia più interessante della tua”, che “stia succedendo qualcosa” e non dove sei tu; la compulsione bulimica a consumare “esperienze di vita”, a passare dall’una all’altra senza mai essere qui e ora.

Non si direbbe se consideriamo la moltiplicazione di “cronopatologie”: la percezione dell’accelerazione del tempo, del fatto che “non ci sono abbastanza ore” e di vivere in modo permanente dentro una “fuga in avanti” che rende impossibile l’esperienza di un tempo pieno e completo, il godimento di una durata (stare con piacere, stare in qualcosa).

No. Non viviamo eccessivamente collocati nel presente. È un errore del pensiero critico contemporaneo, un divario tra la teoria e l’esperienza quotidiana. Il nostro problema è piuttosto il contrario: l’incapacità generalizzata di stare qui e ora, l’erosione dell’attenzione. Non viviamo rinchiusi in nessun presente perpetuo, ma piuttosto in un tempo contratto tra le cose in attesa e i possibili.

Mi sembra sia questo il cuore e uno dei fili centrali dell’ultimo libro del Comité Invisible, intitolato significativamente Maintenant. Un libro brulicante, come i precedenti, di poderose immagini, riflessioni e suggerimenti per catturare il presente in chiave di trasformazione sociale.

Né la migliore terapia, né il miglior corsettino di mindfulness possono modificare le condizioni di vita che generano tanto malessere. Nel migliore dei casi, ci aiutano a elaborare in un modo più positivo la nostra relazione con esse, minimizzando i danni. Nel peggiore, ci insegnano a “vivere bene in un mondo che sta male”, incoraggiando l’anestesia e la sconnessione dal comune come vie di uscita e di cura.

La proposta del Comité invisible è molto diversa: capire quello che ci succede, a partire da una critica radicale della vita quotidiana e pensare il cambiamento sociale come un esercizio di attenzione piena alle potenze di già presenti nelle situazioni che attraversiamo (e ci attraversano). Ricollegare la rigenerazione delle nostre capacità e la trasformazione delle nostre condizioni di vita, la guarigione e la rivoluzione.

 

La uberizzazione del mondo

Che sta succedendo? Come abbiamo fatto a perdere il presente, chi ce lo ha rubato? Secondo il Comité invisible, la spiegazione dobbiamo cercarla nelll’espansione del denaro come mediazione di ogni relazione sociale, la mercantilizzazione generalizzata.

Pensiamo per esempio a quello che rappresenta la cosiddetta “economia collaborativa”, Uber o Airbnb. È l’estensione della razionalità strumentale in ambiti e spazi nei quali finora non era penetrata: a partire da adesso una stanza vuota in casa o un sedile libero in macchina saranno visti come “occasioni di commercio” di cui si approfitta o meno. Si può calcolare su qualsiasi pezzo di realtà… e la precarietà si diffonde.

Da un punto di vista esistenziale, il lavoro ha perso centralità nelle nostre società perché non ce n’è, e quello che c’è è precario e intermittente, e non struttura esistenzialmente la vita. Al tempo stesso però tutto è divenuto lavoro: una festa è l’occasione di “fare contatti”, stare nelle reti sociali è un modo di “guadagnare visibilità”, le relazioni sociali sono considerate una “risorsa” (dobbiamo distinguere prima tra “relazioni che danno vantaggi” e “relazioni tossiche”), etc.

Le nostre abilità, le nostre capacità e i nostri saperi sono “capitale umano” di cui dobbiamo avere cura e che dobbiamo gestire. Siamo al tempo stesso il prodotto, il produttore e il venditore del prodotto, Ognuno è la sua stessa impresa, guidata dal costante sforzo di autovalorizzazione.

Il Comité invisible cita il racconto di Bernard Mourad Les actifs corporels, che ricrea la finzione di un capitalismo estremo nel quale le persone possono andare in borsa come “società unipersonali”, sulla traccia della “Nuova Economia Individuale”. Ma non si tratta per nulla di finzione, ma della semplice esagerazione della realtà che viviamo. Speculiamo costantemente sul nostro valore: bisogna rendersi credibili, meritare credito, far sì che veniamo creduti; aumentare il nostro apprezzamento, la nostra attrattiva e la nostra reputazione. Di certo, Mourad fu consigliere speciale di Emmanuel Macron nelle ultime elezioni francesi.

Il capitale si fa mondo e produce la sua umanità. E quanti portano questa tendenza all’estremo sono curiosamente i nostri eroi (e eroine): i calciatori, gli attori, gli youtubers, gli autori di successo, etc. Compatiamoli, ci dice il Comité Invisible, perché vivono peggio di tutti: in un tour di permanente autopromozione, incatenati a un capitale-reputazione da gestire senza tregua, obbligati a piacere a un pubblico di volta in volta più astratto. Sono denaro vivente.

In definitiva, l’umanità diventa “ottimizzatrice”. Il calcolo perdita-guadagno, la ricerca di redditività e la valutazione utilitaristica di tutto (il nostro corpo, i nostri saperi, etc.) si applicano in qualunque momento e luogo. Persino i pochi gesti gratuiti che ci permettiamo – un regalo, un dono, un favore – si valorizzano in vista di un futuro beneficio. Facciamo fracking nel sottosuolo della terra e nel sottosuolo di noi stessi.

Ma come si relaziona tutto questo con la questione del tempo, del presente, del qui e ora?

Molto semplice: nulla è più quello che è, ma quello che potrebbe essere, quello che potremmo guadagnare con esso. Può sempre esserci qualcosa in più, qualcosa di meglio. Meglio della persona che ho al mio lato, meglio del posto in cui mi trovo, meglio di quello che sto facendo. Vivere qui e ora implica una rinuncia insopportabile a quello che potrebbe essere, è da losers.

Il denaro differisce tutto, dice il Comité Invisible. Viviamo scissi: siamo qui, ma anche lì, in agguato “di qualcosa in più”. Niente ci rallegra o è sufficiente in sé, niente è completo o rotondo in se stesso. La vita è da un’altra parte. L’esistente ci appare in forma di opzioni, equivalenti e intercambiabili, e sempre può essercene una migliore. La libera elezione è oggi la nostra cella. L’impossibilità di star-lì e l’incapacità di stare con le sue conseguenze.

 

Il tessuto delle situazioni

Contro cosa attenta questa espansione “totalitaria” del mercato? Cosa perdiamo di vista quando ottimizziamo? Con cosa smettiamo di relazionarci?

Non è l’”io” o il “vero io”, come ci dicono tante filosofie terapeutiche o New Age, ma il mondo e la vita intesi come una molteplicità infinita e concreta di situazioni che ci attraversano e ci costituiscono.

Come spiega Juan Gutiérrez, smettiamo di relazionarci come esseri aperti e incastonati in altri esseri. Viviamo vincolati agli altri, ma anche alle cose, ai luoghi, alle macchine, e agli altri esseri vivi. La memoria ci incastona ai morti e i non-nati ereditano le conseguenze dei nostri atti, siamo nodi, per quanto singolari, di un tessuto del quale siamo anche tessitori.

Pertanto, il territorio di resistenza non è l’Io, ma le trame materiali e simboliche in cui siamo inscritti, che siamo. Luoghi vivi a cui siamo affezionati, situazioni di vita che ci riguardano, vincoli che ci fanno e ci disfano. Tutto questo ci influenza, ci riguarda, ci appassiona, ci sostiene e ci lega alla vita. Questo tessuto è nostro qui e ora. Il primo gesto di rivolta è quello di percepirci come immersi in questa trama, in questa gigantesca trama.

Secondo il Comité Invisible, l’attuale “frammentazione del mondo” è un’occasione per percepirci meglio in questo piano di realtà. In che senso?

Dappertutto esplodono le forme dell’Uno: le forme trascendenti, centralizzatrici e omogenee di organizzare la vita in comune. La Legge e il Diritto, ideati per una cittadinanza indistinta e astratta, si polverizzano in mille decreti, norme e legislazioni di eccezioni in vista di questioni o soggetti specifici; lo Stato-nazione si vede oggi superato dall’alto (deve piegarsi a poteri globali) e dal basso è incrinato da pulsioni indipendentiste, secessioniste o autonomiste; le identità forti (l’Umanità, il Lavoratore) non funzionano più come poli di identificazione; e la biografia, come narrativa unitaria e coerente dell’Io, si sbriciola in una successione di “stati”, come i nostri profili Facebook.

Indubbiamente possiamo essere dispiaciuti da questo smantellamento. Deplorare la dissoluzione delle vecchie forme di appartenenza e identità. Criticare, per il risentimento verso il presente, il “caos” che emerge e prolifera dappertutto. Ci sono delle valide ragioni: la frammentazione è anche shock e guerra civile tra distinte forme di vita, moltiplicazione di bolle autoreferenziali, isolamento e babele.

È però possibile, come suggerisce il Comité Invisible, abbracciare la frammentazione. In fondo, le forme dell’Uno hanno sempre ricoperto con astrazioni i vincoli situati che siamo: territori, legami, comunità, fraternità, e sorellanza. La frammentazione al contrario li pone allo scoperto, li rende visibili.

Invece di lamentarci di quello che non c’è e ci sarebbe dovuto essere (Stato, genitore, sindacati), possiamo immergerci nel caos del presente, vedere anche le sue potenzialità, imparare a relazionarci con esso senza distanza, la distanza di un Ideale, di un Modello di come le cose dovrebbero essere. Partire da quello che c’è per generare i vincoli, i luoghi, i saperi e le comunità che ci rendano più forti, più liberi e più felici.

 

La politica e il politico

Il Comité Invisible ci dice: il tessuto delle situazioni di vita è il piano di realtà nel quale abitano le potenze di trasformazione del mondo. Cioè, la potenza è lì dove siamo, e non da un’altra parte.

Eppure, la concezione classica della politica ci porta tutto il tempo verso questa “altra parte”. Ci sfida sempre in una stessa direzione: abbandonare le situazioni di vita, giudicate come troppo “limitate”, “piccole” o “isolate”, per cominciare a giocare in un altro dominio “più serio”, “più globale”: il potere politico, lo Stato, le istituzioni, etc.

“La politica” è pensata in questo modo come una sfera particolare, separata e differente rispetto la vita quotidiana, in cui si decide sul “generale”, su “quello che è di tutti”. Una sfera che è sempre propria di specialisti ed esperti: i politici o i militanti rivoluzionari che aspirano a sostituirli, tutto qui.

L’importante non sarà mai qui e ora, in questo pezzo di realtà concreta che condivido con questi altri anche loro concreti, ma sempre “più in alto”, “più in là”, “più tardi”. Nello Stato, nella dimensione europea delle lotte, nella rivoluzione che viene…

Questo approccio riproduce le condizioni di attesa in almeno due sensi:

– in primo luogo, si abbandona il piano vitale in cui abitano le potenze, strumentalizzandolo e svuotandolo per meglio “dare l’assalto al cielo”, per scoprire subito dopo come il cielo del potere sia un luogo di pura impotenza. È inutile attendere per esempio che Manuela Carmena o Ada Colau riescano a fermare da sole la gentrificazione che rende inabitabili le nostre città mentre tutti gli altri continuiamo a vivere allo stesso modo. Ed è anche inutile criticarle per questo: è il lamento del consumatore illuso a cui avevano promesso un’altra cosa. Criticare è l’altra maniera di aspettare.

– in secondo luogo, si genera una militanza permanentemente insoddisfatta, ansiosa e che salta da una cosa all’altra senza approfondire nulla. Si creano e si abbandonano collettivi, i vincoli diventano molto strumentali, l’angoscia è permanente. Poiché nulla ha valore di per sé, tutto è un mezzo per un fine (che non arriva mai). E se tutto è mezzo per un fine, non c’è mai vera presenza, mai vero presente, mai vera pienezza.

In questo modo, il militante politico è oppresso dagli stessi mali dell’“imprenditore di se stesso” neoliberale: sfiancato da mille progetti, mentre corre come un criceto nella ruota, progettando sempre “qualcosa in più”, desidera segretamente che arrivino le vacanze per “staccare”. È molto importante pensare a fondo questo: il mercato e la politica sono due figure del nichilismo, cioè due forme della svalorizzazione del qui e ora in nome del “più in là”. Due figure della mancanza.

Il Comité Invisible suggerisce di distinguere la “politica” dal “politico”. Il “politico” non sarebbe una sfera o un campo a se stante. Non sarebbe un nome, quanto piuttosto un aggettivo. Non avviene cioé “al di là” delle situazioni della vita, ma è una certa intensificazione o declinazione di queste.

Quello che c’è qui e ora non è “ristretto”, “limitato” o “piccolo”, come ci dice la concezione classica della politica, ma infinito. Soltanto a partire da qui possiamo capire quello che succede là, come solo dopo l’attentato del 2004 a Madrid abbiamo potuto capire cosa accadeva quotidianamente in Iraq. Solo a partire da “adesso” possiamo relazionarci in forma viva con il passato, che è stato anch’esso un “adesso” e che può ritornare a prendere vita solo se verrà letto a partire da ciò che viene cercato nel presente.

Non si tratta di “passare” dal piccolo al grande. Perché ciò che chiamiamo grande, generale o globale non è un “composto” di situazioni particolari, un “effetto d’insieme” di una moltitudine di interazioni immediate e minuscole. Ogni situazione contiene in sé tutte le potenze: si tratta di dispiegarle. E di produrre nuovi composti, nuove loro forme di legame.

 

Smercantilizzare

Ricapitoliamo: il nostro problema non è quello di vivere eccessivamente collocati nel presente, ma in un tempo contratto tra la lista delle cose da fare e la proiezione dei possibili.

Questa contrazione del presente ha a che vedere con l’espansione “totalitaria” delle relazioni di mercato a tutta la vita sociale: qualunque spazio, qualunque momento diviene “occasione di commercio”. Non è mai quello che è, ma quello che potrebbe essere.

Vivere nel presente implica il fatto di percepirci inscritti in situazioni e vincolati ad altri, infilati dentro una immensa maglia nella quale al tempo stesso tessiamo e disfacciamo il tessuto. L’attuale frammentazione del mondo è una opportunità volta a percepire con più chiarezza i qui e adesso concreti che ci costituiscono.

La potenza di trasformazione sta in queste situazioni di vita e non “da un’altra parte”. Ma la concezione classica della politica riconduce sempre la nostra attenzione e il nostro desiderio verso un “più in là”: più lontano, più sopra, più tardi.

“Il politico” è un aggettivo e non un nome. È una certa elaborazione delle situazioni. Quale? La fuga dall’economia: la smercantilizzazione radicale della vita e del mondo. L’esperienza del comunismo.

Il Comité Invisible parla molto di amore, in Maintenant, il che di sicuro darà fastidio, sorprenderà o irriterà più di uno. Per quale ragione mischiare l’amore con la politica? Non è forse l’emancipazione una questione di volontà, compromesso militante, strategia e potere (o contropotere), che è la stessa cosa ma invertita?

L’emancipazione è caratterizzata in questo libro come un’esperienza di continuità con gli altri e con il mondo. Non siamo soli, non cominciamo e finiamo in noi stessi, ci prolunghiamo gli uni verso gli altri e prolunghiamo il mondo. Il comune è una esperienza di continuità sensibile per mezzo dei vincoli. Ma quali vincoli?

Se il Comité Invisible parla tanto di amore – parla anche di amicizia, ma meno che in Ai nostri amici – è perché si tratta dell’esperienza più comune e massiccia di un “vincolo d’interiorità”. L’amore ci “insegna” che non esistono solo le relazioni strumentali.

Se la relazione strumentale attiene al “togli e prendi” (la prendiamo e la lasciamo uguale), il vincolo d’interiorità ci costituisce: fa male se vi è separazione perché perdiamo un pezzo di noi stessi.

Se il calcolo strumentale è animato dal calcolo perdita-beneficio (o dalla strategia mezzo-fine), l’amore “non fa di conto”: è un vincolo dis-interessato, d’affinità, appassionato.

Se il vincolo strumentale è “libero”, come quello di un contratto (sempre revocabile), il vincolo in interiorità ci compromette, ci implica, ci obbliga come in un patto.

Smercantilizziamo la vita e il mondo quando costruiamo situazioni di vita attraverso i vincoli d’interiorità. Vincoli tra gli esseri, tra gli esseri e i luoghi, tra gli esseri, i luoghi e gli oggetti, tra gli esseri, i luoghi, gli eventi, etc.

Nelle zone smercantilizzate, le cose possono risplendere nuovamente perché sono incommensusabili. Possono permanere singolari perché non hanno prezzo. Possono diventare concrete perché non sono più né equivalenti né intercambiabili. Portano in se stesse la propria ricompensa. Sono qui e adesso.

È il comunismo. Non un regime politico, ma un mondo. Il mondo “più al di là dell’economia”, nel quale la ricchezza si definisce per abbondanza di tempo e di vincoli. Il mondo che si può abitare pienamente e non solo a metà, il mondo della presenza. Non un orizzonte utopico, ma una esperienza. L’esperienza di continuità con gli esseri e il mondo. Una esperienza presente, una esperienza del presente.

(traduzione dallo spagnolo di Gianfranco Ferraro)