Karl Marx e il primo partito operaio

[Il seguente articolo di Maximilien Rubel è originariamente uscito in “Masses” (socialisme et liberté) N° 13 (febbraio 1948). Il titolo reca una prima nota: Frammento di una Introduzione all’etica marxiana in uscita presso M. Rivière. Ringraziamo “La tradizione libertaria” per averci dato la possibilità di ripubblicare questo testo originariamente apparso qui. L’originale francese invece è reperibile qui.]

Maximilien Rubel – Traduzione di Massimo Cardellini * [ITA_1_03_2019]

Il postulato dell’autoemancipazione proletaria attraversa, come un leit-motiv, tutta l’opera di Marx. È l’unica chiave per una giusta comprensione dell’etica marxiana. Ha ispirato tutte le procedure, teoriche e politiche, di Karl Marx, dal 1844, quando, in La Sacra Famiglia, scriveva che “Il proletariato può e deve liberarsi da se stesso”, attraverso le vicissitudini dell’Internazionale operaia la cui massima, proclamata da Marx, era: “L’emancipazione della classe operaia deve essere opera della stessa classe operaia”, sino agli ultimi anni della sua vita, quando, preoccupato dalla sorte della rivoluzione russa, pose tutte le sue speranze nella plurisecolare obchina e i suoi contadini.[1]

La forza — o la debolezza — dell’etica marxiana, è la sua fede nell’uomo che soffre e nell’uomo che pensa: — nell’uomo medio — tipo umano più numeroso — e nell’uomo eccezionale, pronto a far sua la causa del primo. Tra i due tipi umani si pone la minoranza onnipotente degli oppressori, padroni dei mezzi di vita e di morte, che ha al suo soldo un esercito che si rinnova senza posa di valletti della spada e della penna, che hanno come missione di mantenere lo statu quo o di ristabilirlo ogni volta che coloro che soffrono e coloro che pensano si uniscono per porvi fine, sognando di instaurare non il cielo sulla terra, ma semplicemente la città umana su una terra umana.

L’unione degli esseri sofferenti e degli esseri pensanti non è concepita da Marx come un’alleanza tra degli esseri che si attribuiscono dei compiti differenti, dal punto di vista di una divisione razionale del lavoro, i primi essendo condannati alla miseria e alla rivolta cieca contro la loro condizione inumana, i secondi aventi la vocazione di pensare per i primi, e di fornire a quest’ultimi delle verità bell’e pronte. A questo proposito, Marx si è espresso con una nettezza che esclude ogni ambiguità, sin dal 1843 in una lettera a Ruge: L’intesa di coloro che soffrono e di coloro che pensano è in verità un’intesa tra “l’umanità sofferente che pensa, e l’umanità pensante che è oppressa”. In altri termini i proletari devono elevare l’opinione che essi hanno della loro miseria all’altezza di una coscienza teorica che dia alla miseria proletaria un significato storico e che, allo stesso tempo, permetta alla classe operaia di elevarsi alla comprensione dell’assurdità della sua condizione. Se “l’arma della critica non può sostituire la critica delle armi”, se “la forza materiale non può essere rovesciata che dalla forza materiale”, non resta tuttavia non meno valido il fatto che “la teoria si muti, essa stessa, in forza materiale, non appena essa ha afferrato le masse”.

L’immagine del movimento rivoluzionario non è quella delle folle sofferenti e prive di coscienza guidate da un’élite di uomini chiaroveggenti, che patiscono la miseria, ma quella di una sola massa di esseri in stato permanente di rivolta e di rifiuto, coscienti di ciò che sono, vogliono e fanno. Certo le aspirazioni radicali del proletariato nascono, molto spesso, spontaneamente, per il solo effetto di una situazione avvilente. Ma è allora che essi appaiono degli esseri che sentono la degradazione dell’uomo di massa come un’offesa inflitta alla loro propria dignità di uomini pensanti. Essi intravedono e annunciano per primi la possibilità e la necessità di una rivoluzione radicale, che trasformi le fondamenta materiali e il volto spirituale della società. Essi si uniscono al proletariato, di cui sentono i bisogni e gli interessi come i propri, e se ne fanno gli educatori alla maniera socratica, insegnando loro a pensare da sé. Gli insegnano, innanzitutto, che la lotta di classe non è soltanto un fatto storico, e cioè un fenomeno costante della storia passata, ma anche un dovere storico, e cioè un compito da compiere in piena conoscenza di causa, un postulato etico che, coscientemente posto in applicazione, evita all’umanità le miserie ineffabili che una civiltà tecnica giunta all’apogeo della sua potenza materiale non può mancare di generare per quanto a lungo si sviluppi seguendo le sue proprie leggi, e cioè, seguendo le leggi del caso. Mentre i predicatori religiosi o moralizzanti si danno da fare per apportare ai diseredati la consolazione di una redenzione o di una purificazione attraverso la sofferenza volontariamente accettata, i pensatori socialisti insegnano loro che essi sono la vittima di un meccanismo sociale di cui essi stessi sono i principali ingranaggi e che essi possono, di conseguenza, far funzionare per il vantaggio materiale e morale di tutta l’umanità, lo sviluppo storico avendo permesso all’homo faber di accedere a quella “totalità” delle forze produttive che favorisce la comparsa dell'”uomo totale”: “Di tutti gli strumenti di produzione, il più grande produttivo è la classe rivoluzionaria stessa (Miseria della filosofia).

Il carattere etico del postulato dell’auto-emancipazione del proletariato è ampiamente dimostrato dall’idea che Marx si faceva del partito operaio. È noto che nessuno dei partiti proletari che Marx ha visto costituirsi o ha aiutato a far nascere gli sembravano corrispondere a quest’idea. Ma ciò che si sa meno, è il fatto, – strano a prima vista – che, anche dopo la dissoluzione della Lega dei comunisti e durante tutto il periodo precedente la fondazione dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori, Marx non ha smesso di parlare del “partito” come di una cosa esistente. La sua corrispondenza con Lassalle e Engels è, a questo proposito, estremamente significativa. In numerose lettere scambiate tra i tre amici, nel corso di questo periodo, si discute del “nostro partito”, mentre nessuna organizzazione politica degli operai esisteva realmente. Ma molto più rivelatrici sono, per il problema evidenziato, le lettere di Marx a Ferdinand Freiligrath, il cantore rivoluzionario degli anni 1848- 1849, al momento dell’affare Vogt. Freiligrath era appartenuto alla Lega dei comunisti e aveva pubblicato i suoi versi incandescenti sulla Nuova Gazzetta Renana diretta da Marx. Viveva, come quest’ultimo, a Londra, dove occupava, in una banca, un impiego “onorevole”. Il suo nome essendo stato associato agli intrighi che si preparavano in rapporto alle calunnie sparsa da Vogt sul conto di Marx e del suo “partito”, Freiligrath intraprese dei tentativi per essere esentato dall’obbligo di figurare come testimone a carico contro Vogt, nei processi intentati da Marx a Londra e a Berlino. Marx tentò in una lettera il cui tono caloroso non cede in nulla al rigore politico, di convincerlo che i processi contro Vogt erano “decisivi per la rivendicazione storica del partito e per la sua ulteriore posizione in Germania” e che non era possibile lasciare Freiligrath fuori dal gioco, “Vogt”, gli scrisse Marx, “tenta di trarre profitto dal tuo nome e finge di agire con la tua approvazione infangando l’intero partito, si vanta di averti tra i suoi sostenitori […] Se abbiamo coscienza entrambi di aver, ognuno a proprio modo e nel disprezzo di tutti i nostri interessi personali, mossi dai moventi più puri, agitato per anni la bandiera al di sopra delle teste dei filistei, nell’interesse della ‘classe la più lavoratrice e la più miserabile’, sarebbe, io credo, un peccato meschino contro la storia, se ci urtassimo per delle bazzecole che poggiano su dei malintesi”.

Freiligrath, pur assicurando Marx circa la sua amicizia indefettibile, puntualizzerà nella sua risposta che, se egli intendeva rimanere fedele alla causa proletaria, si considerava tuttavia tacitamente disimpegnato da ogni obbligo nei confronti del “partito”, dalla dissoluzione della Lega comunista. “Alla mia natura”, egli scrisse, “così come a quella di ogni poeta, occorre la libertà! Il partito somiglia, anch’esso, a una gabbia, e si può comporre meglio, anche per il partito, dall’esterno piuttosto che dall’interno. Sono stato un poeta del proletariato e della rivoluzione, per molto tempo prima di essere stato membro della Lega e membro della redazione della Nuova Gazzetta Renana! Voglio dunque continuare a volare con le mie ali, non voglio appartenere che a me stesso e voglio io stesso disporre interamente di me!”. Nella parte conclusiva, Freiligrath non mancò di far allusione a “tutti gli elementi dubbiosi e abietti […] che si erano accollati al partito” e di evidenziare la sua soddisfazione di non farne più parte, “non fosse che per il gusto della pulizia”.

La replica di Marx, a più di un titolo, presenta un interesse particolare per ciò che costituisce, accanto al Manifesto del partito comunista e alla Critica del programma di Gotha uno dei rari documenti suscettibili di chiarire uno dei problemi più importanti, se non il più importante, dell’insegnamento marxiano, problema sul quale la più grande confusione non smette di regnare negli spiriti marxisti.

Ricordando a Freiligrath che la dissoluzione della Lega comunista aveva avuto luogo (nel 1852) su sua proposta, Marx dichiara che dopo quell’avvenimento non è appartenuto e non appartiene a nessuna organizzazione segreta o pubblica: “Il partito”, egli scrive, “compreso in senso essenzialmente effimero, ha smesso di esistere per me da otto anni”. In quanto alle discussioni sull’economia politica che egli aveva fatto dopo la pubblicazione del suo Per la critica dell’economia politica (1859), esse erano destinate non a qualche organizzazione chiusa ma a un piccolo numero di operai scelti tra i quali vi erano anche vecchi membri della Lega comunista. Sollecitato da alcuni comunisti americani di riorganizzare la vecchia Lega, egli aveva risposto che dal 1852 non era più in relazione con nessuna organizzazione di alcun genere: “Risposi […] che avevo la ferma convinzione che i miei lavori teorici erano più utili alla classe operaia della mia collaborazione con delle organizzazioni, che, sul continente, non avevano più alcuna ragione di essere”. Marx prosegue: “Dunque, dal 1852, non so nulla di un “partito” in senso letterale. Se sei un poeta, io sono un critico e ne avevo veramente abbastanza delle mie esperienze fatte tra il 1849 e il 1852. La Lega, – così come la Società delle stagioni di Parigi e come cento altre società, – non era che un episodio nella storia del partito il quale nasce spontaneamente dal terreno della moderna società”.[2] Poco oltre leggiamo: “La sola azione che ho continuato dopo il 1852 per quanto tempo ciò era necessario, e cioè sino alla fine del 1853 […], era il system of mockery and contempt[3] […] contro gli inganni democratici dell’emigrazione e le sue velleità rivoluzionarie”. Marx parla allora degli elementi sospetti menzionati da Freiligrath appartenuti alla Lega. Gli individui nominati non erano in realtà mai stati membri di quell’organismo.

E Marx aggiunge: “È certo che nelle tempeste, il fango viene agitato, che nessuna era rivoluzionaria profuma di acqua di rose, che in certi momenti si raccolgono ogni genere di rifiuti. Presentemente, quando si pensa agli sforzi giganteschi diretti contro di noi da tutto quel mondo ufficiale che, per rovinarci, non si è accontentato di sfiorare il delitto penale, ma vi si è immerso sino al collo; quando si pensa alle calunnie sparse dalla ‘democrazia dell’imbecillità’ che non ha mai potuto perdonare al nostro partito operaio di aver avuto più intelligenza e carattere di quanto essa non ne avesse mai avuto, quando si conosce la storia contemporanea di tutti gli altri partiti e quando, infine, ci si domanda ciò che si potrebbe realmente rimproverare al partito intero, si deve giungere alla conclusione che questo partito, in questo XIX secolo, si distingue brillantemente per la sua pulizia. Possiamo, con le usanze e i traffici borghesi, sfuggire all’infangamento? È proprio nel traffico borghese che essi sono al loro posto naturale […] Ai miei occhi, l’onestà della morale solvibile… non è in nulla superiore all’abietta infamia che né le prime comunità cristiane né i club dei giacobini né la nostra defunta Lega non sono riuscite a eliminare dal loro interno. Solo che, vivendo nell’ambiente borghese, si prende l’abitudine di perdere il senso dell’infamia rispettabile o dell’infame rispettabilità”.

La lettera, la cui maggior parte è dedicata a delle questioni di dettaglio del processo contro Vogt, termina con queste frasi: “Ho cercato […] di dissipare il malinteso a proposito di un ‘partito’: come se, con questo termine, intendessi una ‘Lega’ sparita da otto anni o una redazione di giornale dissolta da dodici anni. Con partito, intendevo il partito in senso eminentemente storico”.

Il partito in senso eminentemente storico, – era per Marx il partito invisibile del sapere reale piuttosto che il dubbio sapere di un partito reale, detto altrimenti, egli non concepiva affatto che un partito operaio, qualunque esso fosse, potesse incarnare, per il semplice fatto di esistere, la “coscienza” o il “sapere” del proletariato.[4]

Durante gli anni in cui Marx si teneva ai margini di ogni attività politica dedicandosi esclusivamente a un lavoro scientifico massacrante, non smetteva mai, quando gli si presentava l’occasione, di parlare in nome dell’invisibile partito di cui si sentiva responsabile. Così, nel 1859, ricevendo una delegazione del club operaio di Londra, non temeva di dichiarare loro che si considerava, insieme a Engels, come il rappresentante del “partito proletario”. Lui e Engels diceva, non traevano questo mandato che da se stessi, ma quest’ultimo sarebbe “controfirmato dall’odio esclusivo e generale” che votano loro “tutte le classi del vecchio mondo e tutti i partiti”.

Quando, durante gli anni 60, si assiste alla rinascita del movimento operaio nei paesi dell’occidente, Marx valutava che il momento era venuto per “riorganizzare politicamente il partito dei lavoratori” e per proclamarne di nuovo apertamente gli scopi rivoluzionari. Nello spirito di Marx, l’Associazione Internazionale dei Lavoratori era la continuazione della Lega dei Comunisti di cui egli aveva, insieme a Engels, definito il ruolo, alla vigilia della rivoluzione di Febbraio. La Lega non doveva essere un partito tra gli altri partiti operai, essa aveva uno scopo più elevato, perché più generale: rappresentare in ogni momento “l’interesse del movimento totale” e “l’avvenire del movimento”, indipendentemente dalle lotte quotidiane condotte su scala nazionale da parte dei partiti operai.

L’Internazionale operaia, fondata a Londra nel 1864 in circostanze incomparabilmente più favorevoli che nel 1847 della Lega dei Comunisti nella stessa città, doveva essere al contempo l’organo delle aspirazioni comuni dei lavoratori e l’espressione vivente del loro sapere teorico e della loro intelligenza politica. L’Associazione Internazionale dei Lavoratori era, secondo Marx, il partito proletario, la manifestazione concreta della solidarietà degli operai nel mondo. “Gli operai”, scriveva Marx nell’Indirizzo inaugurale, hanno tra le loro mani un elemento di successo: il loro numero. Ma il numero non pesa sulla bilancia se non è unito dall’organizzazione e guidato dal sapere”.

Per Marx, l’Internazionale operaia era il simbolo vivente di quell'”alleanza della scienza e del proletariato” alla quale Ferdinand Lassalle, prima di scomparire, aveva legato il suo nome. L’internazionale non potendo più, dopo la caduta della Comune di Parigi, svolgere il ruolo che gli assegnava il suo protagonista, quest’ultimo preferì una volta di più riprendere il suo lavoro, preso dal desiderio di lasciare alle generazioni operaie future uno strumento perfetto di autoeducazione rivoluzionaria. Marx fu il primo a riconoscere che “le idee non possono mai portare oltre un vecchio stato del mondo” e che “per realizzare le idee, ci vogliono degli uomini che pongano in opera una forza pratica” (La sacra famiglia). Ma se è vero che le idee non possono condurre che “al di là delle idee del vecchio stato del mondo”, ne consegue che la vera metamorfosi del mondo implica al contempo la trasformazione delle cose e quella delle coscienze”, e che il tipo dell’uomo vivente in stato permanente di rivolta e di rifiuto è, in qualche modo, un’anticipazione del tipo umano della città futura, “dell’uomo integrale”.

 

[1] Cfr. Karl Marx e il socialismo populista russo, in La Revue socialiste, maggio 1947.

[2] Sottolineato da me (M. R.).

[3] “La beffa e il disprezzo sistematici” (M. R.).

[4] Engels non la pensava d’altronde diversamente, a giudicare dalle lettere che egli indirizzava a Marx durante la crisi attraversata dalla Lega. Eccone un campione: “Cosa abbiamo da cercare in un ‘partito’, noi che fuggiamo come la peste le posizioni ufficiali, che ci importa, a noi che sputiamo sulla popolarità, e che dubitiamo di noi stessi quando cominciamo a diventare popolari – un partito, e cioè una banda di asini che giurano su di noi, perché si credono nostri simili?” (13 febbraio 1851).

 

* Massimo Cardellini, insegnante e traduttore, è nato a Binche, in Belgio, da genitori italiani. Si è laureato presso la Facoltà di Lettere e Filosofia di Perugia con un lavoro sulla figura e le opere di Raymond Aron. Gestisce da molti anni il blog e l’omonima pagina facebook “La Tradizione Libertaria”. Ha tradotto diversi volumi di autori ancora poco noti e inediti in Italia, come: “Memoria interpretativa dello zodiaco mitologico e cronologico”, di Charles François Dupuis, (1806) 2009; “Rodi-Maglie vincitore”, romanzo breve illustrato di Lucien Descaves (testi) e Lucien Laforge (disegni), 1920, in autoproduzione; “L’individualismo nell’antichità di Han Ryner”, (1924) 2017. Per il web ha poi tradotto il fumetto di didattica della scienza on line tratto dal sito “Savoir sans Frontières” di Jean Pierre Petit intitolato “Cosmic Story”. Di Pierre Joseph Proudhon ha tradotto: “Il federalismo e l’unità in Italia” (1862), Sana Utopia: 2011; “Francia e Reno”, (1865) 2013; “Corrispondenza Proudhon – Ferrari. Nuove osservazioni sull’unità italiana”, (1864) Sana Utopia:2015; “Proudhon si racconta. Autobiografia mai scritta” (Milano, Zero in Condotta, 2016). Infine, ha in preparazione la nuova traduzione di “Histore du surréalisme” di Maurice Nadeau, 1964 che uscirà a dicembre 2019.