Dove va il Portogallo? Elezioni in riva all’Atlantico

Gianfranco Ferraro (ITA_06.10.2019)

LISBONA. A 45 anni dalla fine della dittatura salazarista (1974) e a 33 dall’entrata nell’Unione Europea (1986), i dieci milioni di cittadini del Paese dei Garofani tornano a votare in un clima, e forse in un Paese, sempre più lontano da quello in cui si era votato nelle precedenti legislative del 2015.

Il dato rilevante è che con un sistema proporzionale puro, parzialmente modificato dal premio di maggioranza al partito o alla coalizione di partiti che superino il 40% dei voti, il Paese atlantico è oggi certamente tra i Paesi politicamente più stabili e che meno preoccupazione destano a Bruxelles.

E questo nonostante quattro anni di governo di una inedita coalizione di sinistra a sostegno del monocolore socialista di António Costa, figlio di immigrati dell’antica colonia di Goa, e allievo di António Guterres, che ha riportato nell’alveo di governo, dopo il 1975, i comunisti del PCP – di certo ormai il più grande Partito comunista europeo, passato praticamente indenne dalla caduta del muro – e il Bloco de Esquerda, partito di opinione, compiacente con un certo populismo di sinistra, dato in continua crescita.

Definitivamente archiviata la partita con la Troika, arrivata in Portogallo nel 2011, con un disavanzo di bilancio e addirittura con l’elezione a Presidente dell’Eurogruppo del Ministro delle Finanze Mario Centeno, a sostituzione dell’austero olandese Dijsselbloem – lo stesso che, ai tempi degli scontri con il governo greco di Tsipras e di Varoufakis, accusava i Paesi del sud Europa di spendere tutto in alcool e donne – il Paese lusitano sembra aver vissuto, in questi quattro anni, un piccolo, strano miracolo.

I numeri parlano chiaro, anche se non dicono tutto.

Con un rapporto debito pubblico–Pil in decremento, un tasso di disoccupazione al di sotto della media europea, un tasso di inflazione del tutto contenuto, una crescita esponenziale dell’industria turistica e immobiliare, soprattutto nelle grandi aree metropolitane di Lisbona e Oporto, il Portogallo è per la prima volta, dopo decenni, Paese di immigrazione e non più di emigrazione: i giovani adulti tra i 25 e i 35 anni, soprattutto quelli qualificati, non partono più, mentre il Paese ha attratto negli ultimi dieci anni un numero sempre più consistente di imprenditori, ricercatori, e giovani lavoratori stranieri. Non solo: alcune misure approvate attraverso le misure ultraliberiste della Troika, come la detassazione per dieci anni sulle pensioni estere, l’attribuzione del Visa Gold, e lo sblocco del tetto massimo degli affitti, ha attratto improvvisamente nel Paese migliaia di pensionati francesi, italiani e inglesi, così come grandi fondi immobiliari internazionali, che hanno immediatamente investito in ristrutturazioni milionarie e in costruzioni di lusso.

Si aggiunge, a questo macrocontesto economico, l’assenza di grossi conflitti sociali, e – cosa da non sottovalutare – l’accesso alle stanze dei bottoni di una élite politica estremamente dinamica e capace anche di una visione geopolitica del Paese.

Non è un caso che il governo di Costa è intervenuto, in questo contesto di crescita economica, con una politica redistributiva che ha permesso di aumentare il salario minimo così come le pensioni (per la verità prima tra le più basse della media europea).

I risultati, quelli positivi, ma anche quelli negativi, sono in questi numeri. Esempio negativo di importanza primaria è, a fronte di una inflazione contenuta sui beni primari, l’aumento progressivo del costo delle abitazioni nei centri urbani, sia sul fronte degli acquisti che degli affitti: se nel centro urbano di Lisbona era possibile, fino a quattro anni fa affittare un intero appartamento di due stanze e una quarantina di metri quadri per meno 500 euro, oggi lo stesso appartamento non si affitta per meno di 800-900 euro. In un quartiere popolare come Alfama oggi i residenti di antica data si sono ridotti al 60% della popolazione complessiva, e lo stesso trend è visibile negli altri quartieri popolari di Lisbona, come di Oporto. Conseguenza inevitabile è lo spostamento della popolazione di ceto medio-basso nelle aree periferiche o nelle aree metropolitane, e il cambiamento del volto stesso delle città, sempre più gentrificate. Su questo terreno minato, Costa si è mosso per la verità in modo ambivalente, limitandosi a costituire delle aree “di contenimento” contro il dilagare delle industrie delle piattaforme di affitto temporaneo.

D’altro canto, con le gru al lavoro in ogni angolo della città, e un pullulare di cantieri e imprese 2.0, Lisbona sembra oggi quella che era Berlino venti anni fa: una città improvvisamente aperta al mercato globale, certo senza dietro la forza economica di un Paese come la Germania. “Città globale in un Paese periferico”, come la definiscono oggi gli urbanisti, Lisbona non è però, appunto, il Portogallo. Anche se, o proprio perché, metà della popolazione si concentra tra le sue due grandi aree metropolitane, il resto del territorio appare sempre più svuotato e abbandonato (più simile, per la verità a certe aree della Basilicata o dell’interno siciliano). L’effetto di questo abbandono delle aree rurali, e la loro occupazione con piantagioni intensive, come l’eucalipto, ha avuto come immediata conseguenza il moltiplicarsi degli incendi, con conseguenze semplicemente disastrose: è proprio durante il governo Costa che, nel 2017, l’incendio di Pedrógao Grande, nel centro del Paese, ha provocato la più grande strage del Paese dai tempi della Prima Guerra Mondiale: 66 morti, a cui vanno aggiunti un’altra quarantina in altre aree.

Sempre del 2017, annus terribilis, è l’altro misterioso caso della sottrazione di armi pesanti e leggere dalla caserma di Tancos. Caso che ha portato alla sostituzione di due ministri e che risulta a tutt’oggi irrisolto: non è un caso che le opposizioni di Costa, il Partito socialdemocratico del segretario Rui Rio e il CDS-Partito popolare di Assunção Cristas, abbiano gettato proprio questo caso nel mezzo della campagna elettorale per mettere spalle al muro Costa e per grattare qualche voto.

Ed è proprio contro le politiche di austerity della coalizione di PSD e CDS, capeggiata dall’allora leader del PSD Passos Coelho che il voto di quattro anni fa si era rivolto.

Pur con una maggioranza relativa nell’Assembleia da Repubblica (il Parlamento portoghese), l’antica coalizione non era riuscita a mantenersi al governo: invece di puntare a una grande coalizione, come accadeva negli stessi anni in Italia e in Germania e in Italia, Costa preferì, con un coup de thêatre, tentare la strada, difficile, della “geringonça” – la strana macchinetta, come si potrebbe tradurre in italiano – facendo un patto di governo con il PCP dello storico secretario Jerónimo de Sousa e il BE di Catarina Martíns. Un patto violentemente osteggiato dall’allora presidente della Repubblica, del PSD, Cavaco Silva, e invece difeso – quando non apertamente sostenuto – dal nuovo e carismatico presidente della Repubblica, anche lui del PSD, Marcelo Rebelo de Sousa.

Figura centrale, quest’ultimo, della storia di quattro anni. Professore di diritto e opinionista televisivo, “Marcelo” sembra aver incarnato, con Costa, quelle dinamiche populiste che in altri Paesi europei hanno fatto sbandare in più di un caso le istituzioni rappresentative. Affabile, ed estremamente vicino a un certo “fare popolare”, Rebelo de Sousa ha infatti dirottato l’algida distanza della sua figura istituzionale in una vera e propria politica di prossimità – talmente famosi sono i suoi selfie da scaturire nell’invenzione di  una app per smartphone – che gli ha fatto percorrere in lungo e largo tutto il Paese.

Al patto di governo tra le forze di sinistra va sommato quindi, per comprendere il successo della “geringonça” nel Paese dei “blandi costumi”, il patto istituzionale tra i due “populismi istituzionali” di Costa e Rebelo de Sousa. Un patto che ha avuto, anche sul piano internazionale, almeno quattro conseguenze: l’elezione del vecchio premier socialista António Guterres a Segretario generale delle Nazioni Unite, la già citata nomina di Centeno a Presidente dell’Eurogruppo, un trattato di bilaterale tra il Portogallo e la Repubblica Popolare cinese, che colloca il Paese come terminale decisivo della “Nuova Via della Seta” – il progetto di espansione globale dell’economia asiatica, e l’organizzazione con il Vaticano – tutt’altro che un semplice fatto religioso – della prossima Giornata Mondiale della Gioventù.

Una dinamizzazione improvvisa, e in grado di giocare su più tavoli, della proiezione geopolitica del Paese che non può passare inosservata, soprattutto vista l’immobilità politica del Grande vicino spagnolo e gli spasmi in cui si agita lo storico grande alleato inglese.

Come influirà tutto questo sulle elezioni lo scopriremo a breve. Sondaggi di appena un mese fa davano Costa e i socialisti vicini al 40%, cioè al quorum che consentirebbe loro di governare da soli. Oggi la soglia appare più bassa, mentre costante appare la crescita del Bloco de Esquerda e più o meno stabile o in leggera flessione – intorno al 7% – la percentuale del PCP.

All’incognita del risultato dei socialisti si somma infine l’altra grande incognita del nuovo Partito ecologista, il PAN, il cui successo alle scorse europee ha fatto irruzione tra le cinque grandi forze parlamentari portoghesi e potrebbe scompaginare l’asset del prossimo governo. Partito di opinione, prevalentemente urbano, con una importante agenda di provvedimenti atti a rendere green il sistema produttivo, più che a riformarlo, come ancora prevedono le agende del PCP e del BE, il PAN potrebbe essere un futuro, tranquillo alleato di un Partito Socialista che, ormai libero dall’incidenza delle sinistre estreme – indigesta alla sua parte più destrorsa, governerebbe in pieno accordo con le politiche europee della nuova Commissione di Ursula von der Leyen.