Per una pedagogia post-globale: l’attualità della pedagogia di Buber e il suo messaggio (nella bottiglia).

di Francesco Valacchi [ITA_13/10/2020] 

 

Nell’introduzione dell’opera pedagogica di Martin Buber I Discorsi sull’educazione pubblicata per i tipi di Armando Editore[1] la curatrice della traduzione italiana (come tanti altri studiosi) ci ricorda che l’impegno educativo di Martin Buber si radica e si sostanzia nella contestualizzazione della sua figura nel milieu intellettuale della Vienna e della mittel-Europa del primo Novecento e, successivamente, nell’ambiente colto di Gerusalemme degli anni immediatamente successivi alla Seconda guerra mondiale. L’azione di Buber educatore è da comprendersi in una Vienna in cui egli si formò ed in una Europa centrale in cui egli operò essenzialmente come filosofo, come formatore, come educatore e come docente. Si tratta di un ambiente culturale che a tutt’oggi rappresenta un paradigma della decadenza e della sofisticata sconfitta della razionalità. In quegli anni ed in quell’ambiente culturale si condensarono i primi grumi della psicoanalisi e quindi del nuovo approccio allo studio dell’animo umano.

Autori come Sigmund Freud e Carl Gustav Jung sono fra i principali che scrissero e operarono in quegli anni e in quell’ambiente e sostennero l’importanza di concetti come quello del peso della libido sull’inconscio e pertanto sulla direzione dell’agire che l’individuo andava a impostare, mentre Buber ne fu un deciso critico. La riduzione della fase istintuale dell’uomo, del suo peso e della sua centralità è uno dei cardini del pensiero di Buber. La rinascita di una dimensione spirituale che si approfondisce ben presto da una parte nella formazione del concetto di Io con il differente atteggiamento di Io-Tu e Io-Esso determinati dalla relazione differente che l’Io uomo instaura con la realtà (giacché come ove no v’è relazione non v’è realtà[2]) e dall’altra nella riscoperta del rapporto con Dio sia attraverso la tradizione religiosa ebraica sia attraverso la rilettura della mistica è la vera grande rivoluzione sostenuta da Buber.

Anche gli scritti pedagogici di Martin Buber compiono il loro principale sforzo nella direzione di reinterpretare la psicologia in una dimensione spirituale. Per Buber il docente nella sua azione educatrice deve rifarsi all’”impulso creativo originario” dell’animo umano, ovvero quella voce, fra le voci del coro dell’interiorità umana, che conferisce l’ingegno creativo all’essere umano, proprio perché nel formare ed educare si esprime una potenzialità essenzialmente creativa, innovativa e rivoluzionaria.[3] Educare deve essere, per Buber, un plasmare, un dare un’impostazione senza possedere la personalità creata e senza, soprattutto, influenzarne la direzione a proprio piacimento. Un primo messaggio del Buber pedagogo è quindi l’imprimere al procedimento educativo e alla docenza in generale la direzione della creatività, esprimendo la propria creatività ma soprattutto lasciando campo libero alla creatività del discente. Il gesto e l’azione educativa e creativa diventano pertanto pure e non possono sfociare nel desiderio(o cupidigia, come lo chiama Buber) di conformare la formazione del soggetto e rimangono invece pura espressione creativa. Si tratta di un gesto puro, l’educazione, che non si fa per impadronirsi del mondo o del soggetto che si educa ma per far dischiudere al mondo il discente e per esprimersi e relazionarsi con il soggetto che si sta educando.

Per il rapporto con l’elemento creativo e con la purezza dell’ispirazione Buber è certamente debitore di Friedrich Nietzsche e Wilhelm Dilthey (fonti tra le principali del Buber più maturo,[4] mentre per definire la posizione di partenza del pensiero di Buber nei confronti della spiritualità e dell’elemento tradizionale ebraico occorrerebbe citare senz’altro un numero impressionante di fonti. Senza dubbio la spiritualità dell’individuo è un altro elemento ben chiaro e centrale nello sviluppo della pedagogia (insieme all’elemento di creatività dell’animo umano, il già citato ”impulso creativo originario”) in esame.  E’ il rapporto con Dio che anima la definizione umana di Buber, poiché egli fra i primi designò, appunto con le sue definizioni di Io-Tu e Io-Esso, l’esistenza umana come relazione pertanto l’uomo è tale per il suo rapporto con l’essere perfetto, il tu eterno che è Dio (rapporto teandrico).[5] La parte spirituale della sfera umana diviene pertanto importantissima in ogni sfaccettatura della vita umana, nella pedagogia la spiritualità è a maggior ragione centrale, tanto da far sì che Martin Buber si esprima così:

L’educativo significa quindi un’alta ascesi: un’ascesi che gioisce del mondo in virtù della responsabilità e del farsi carico di un ambito vitale sul quale agire, ma senza intervenire né con la volontà di potenza, né con le modalità proprie dell’eros. il servizio (Dienst) dello spirito a favore della vita può affidarsi solo ad un sistema regolato da leggi di contrappunto tra diversi tipi di rapporto, tra il darsi e il mantenersi distaccati, tra confidenza e distanza, contrappunto che deve nascere non da una riflessione ma dalla sensibilità di fondo (Wesenstakt) della persona fatta di naturale e spirituale.[6]

Siamo quindi di fronte ad un uomo educatore che si mantiene distante tanto dalla fase istintuale quanto dalla tentazione di sentirsi completamente distaccato ed eterogeneo dall’allievo inteso come soggetto discente e parte attiva dal rapporto. La maniera dell’educazione per Buber deve essere frutto di una dialettica fra la moderna pedagogia (guidata dalla volontà della libertà ad ogni costo e dalla “cupidigia dell’eros”, momento di rinnegamento della vecchia pedagogia autoritaria.  La tradizione educativa autoritaria è tanto superata, secondo la lezione di Martin Buber, quanto lo è la moderna educazione basata sulla completa assoluzione del discente dai canoni imposti dal sistema educativo e dalla direzione impressa dal docente. I principi base della pedagogia vengono identificati nel kratos (volontà di potenza) per la pedagogia tradizionale ed eros per la pedagogia moderna che finiscono per non essere principi dell’educazione ma volontà egoistiche (volontà di potenza o cupidigia) del docente e per smembrare e azzerare la creatività dell’azione educativa naufragando nella volontà di possedere l’educato (orientarne l’animo e plasmarne l’educazione).

I due istinti: brama autoritaria e desiderio di godimento dell’esperienza educativa possono essere superati, secondo Buber, con la ricomprensione: una relazione fra i due individui interessati dal rapporto, in questo caso rapporto dialogico, che si estrinseca in tre punti. I tre punti caratterizzanti la ricomprensione vengono ben evidenziati da Marco Bertè nel suo contributo Martin Buber: per una pedagogia dialogica[7] e essenzialmente sono individuabili nel rapporto reciproco e cosciente del proprio ruolo fra docente e discente, in un processo esperito da entrambe, cui una partecipa attivamente (e si tratta del processo di educazione, a cui il docente partecipa attivamente) e nel fatto che questa persona, mentre avverte e vive la propria partecipazione di insegnante, sperimenta il processo anche dall’altra parte, cogliendo ciò che è vissuto dall’altra persona. In questa definizione si nota come venga chiaramente mantenuto il rapporto di alterità fra le due perone coinvolte nel processo pedagogico e come il docente senta il processo di insegnamento e di formazione senza tuttavia volersi impossessare delle sensazioni e dell’autonomia del discente.

La particolarità della pedagogia codificata da Martin Buber è anche nella reciprocità del rapporto che non diviene tuttavia un rapporto di amicizia lasciando prevalere il godimento sulla potenzialità formativa. Si tratta di un sistema pedagogico che superando il distacco della tradizione e la volontà di potenza supera la crisi dei punti di riferimento ideologici e purtuttavia non cade nella scorciatoia della tendenziosità del rapporto di amicizia superando la crisi della modernità per divenire una pedagogia della “post-modernità” e diviene quindi attualissima.

Proprio la pandemia attualmente in corso ci ha dimostrato molti aspetti della debolezza della scienza, delle dottrine economiche e soprattutto delle scienze umane, riconducendoci a cercare di combattere una minaccia moderna (la diffusione del virus con la velocità di propagazione connessa al mondo post-globale) con gli stessi mezzi utilizzati per mitigare il rischio dei contagi per le epidemie del Diciassettesimo secolo, e proprio l’attualità ci ha dimostrato la labilità di un sistema pedagogico basato sulla tradizione o sull’eccessiva liberalizzazione. Il disorientamento della pubblica opinione e del “senso comune” di fronte alla continua contraddizione di fonti scientifiche finora considerate “autorevoli” è solo la punta dell’iceberg di un senso di disorientamento che si coglie fra gli studenti a tutti i livelli ma soprattutto fra i docenti, cui viene imposto di essere troppo spesso garanti di un’educazione che ha ormai perso i punti di riferimento e, ancor peggio, garanti principalmente della sicurezza degli studenti piuttosto che del loro apprendimento (facendo sì che le loro risorse spirituali e tecniche si infrangano nel muro del timore per la salute degli studenti prima ancora di essere messe alla prova dall’azione formativa).

Forse per superare questo senso di frustrazione e questa resa incondizionata al nuovo, profondo, disorientamento culturale nel campo pedagogico serve proprio il ritorno alla fiducia nella creatività come espressione dello spirito dell’individuo ed alla primazia del momento dialogico fra docente e discente. In questo caso certamente è compito delle scienze sociali guidare questo adattamento fondamentale portando a conoscenza la società anche del messaggio che Martin Buber ha affidato al mondo degli “addetti ai lavori” attraverso il mare della società post-globale.

 

Note:

[1] A. Aluffi Pentini (a cura di), M. Buber, Discorsi sull’educazione, Roma, Armando Editore, 2009.

[2] Cit. M. Buber, L’io e il tu, Pavia, Bonomi, 1991, p.91.

[3] Cfr. A. Aluffi Pentini (a cura di), M. Buber, op. cit., p.36.

[4] Cfr. R. Weltsch, Pagine d’altri. Martin Buber e il suo tempo, in “La Rassegna Mensile di Israel”, luglio 1930, seconda serie, vol. 5, n. 3 pp. 166-171.

[5] Cfr. M. Buber, Il principio dialogico e altri saggi, Roma, San Paolo Edizioni, 2004, p. 114.

[6] Cfr. A. Aluffi Pentini (a cura di), M. Buber, op. cit., p.54.

[7] Cfr. M. Bertè, Martin Buber: per una pedagogia dialogica, in a cura di A. Bobbio, Pedagogia del dialogo e relazione di aiuto : teorie, azioni, esperienze, Roma, Armando Editore, 2012.