Lo spettro e la breccia: la Comune, centocinquant’anni dopo

di Gianfranco Ferraro (ITA_18.03.2021)

J’aimerai toujours le temps des cerises
Et le souvenir que je garde au cœur !
Le temps des cerises
 
Quel che muore non cade fuori dal mondo
Marco Aurelio
 

Visitando le città, ognuno porta con sé le sue memorie, così come le sue proiezioni. Ci sono città che vivono, più di altre, di questo. Città in cui il presente dei passi che il viaggiatore dà nelle sue strade è continuamente attraversato da uno scarto. Come se in quelle strade, in quell’angolo, in quella scalinata, qualcosa del passato fosse in qualche modo rimasto aggrappato ai muri, ai ciottoli, alla terra. Qualcosa di irrisolto, e, proprio perché irrisolto, generatore di possibilità che lo sguardo presente non riesce interamente a controllare. Ci sono città, e anche date, che in un certo momento risvegliano a chi ha l’avventura di attraversarli come un foro nella dimensione del presente. Il presente non è più solo il presente, non è chiuso in se stesso, ritratto nella dinamica delle forze che lo compongono. È aperto, sconvolto, proprio in quel punto e in quella data, dalla ripresentazione di ciò che che è accaduto, ma questa ripresentazione ha come l’effetto di scardinare, ora verso il futuro, la sua immobilità.

La fisica contemporanea, con Rovelli, ce lo insegna: scordiamoci che il presente sia “tutto qui”, in quello che vediamo e ci appare, e che le dimensioni che trascendono la nostra esperienza – e che possono disegnare anche, insomma, una esperienza comune del mondo – siano quelle disegnate da Kant. Abbiamo scoperto, o riscoperto, “che ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante ne sogni la tua filosofia”. È qualcosa che la politica, come tecnica, o insieme delle tecniche di governo e di liberazione (entrambe vere) ha sempre saputo e che, tuttavia, proprio nel momento in cui sembra dissolversi nella “gabbia d’acciaio” del capitalismo finanziario e immunitario di ultima generazione, sembra dimenticare.

Eppure, appunto, il presente non è solo il presente, perché raccoglie tutti gli spettri che nel presente, grazie semplicemente al fatto che il presente è composto da tutte le creature presenti, si raccolgono. Al Père Lachaise, a Parigi, il muro dei Confederati non ha nulla di “monumentale”. È un muro, poco più. In lontananza si sente il respiro della città, dietro quello degli alberi. È l’immaginazione che ci aiuta, riportandoci a centocinquanta anni fa: alla disperazione degli accerchiati, alle fucilate in mezzo alle tombe, a quel sentimento di oppressione che devono aver vissuto quei pochi sopravvissuti che venivano messi al muro. Oppressione data non solo dall’umana angoscia di essere sul punto di sparire, proiettati dai propri simili nel destino di polvere celeste in cui tutto, un giorno, si perderà senza perdersi, ma anche dall’angoscia che l’avventura umana, la storia di questa avventura, nella quale i pochi mesi precedenti avevano aperto una breccia, sarebbe continuata allo stesso modo, immobile, immutabile, ammutolita.

La Comune, come tutte le brecce storiche, porta con sé questo elemento che non attiene semplicemente alla politica, se non nella forma per cui la politica attiene essa stessa al modo di essere degli uomini, che è quello di poter scrivere e riscrivere – a differenza di qualunque altra specie – il loro modo di essere nel mondo. La Comune la incontriamo in questo elemento che squarcia, appunto, qualunque ritmica persistenza e autopresentazione del presente in quanto assoluto. Essa ci riporta alla natura costitutivamente aperta, densa di possibilità, dell’umano, e alla potenza che questa natura raggiunge quando prende coscienza della domanda e della possibilità con cui nasce: che cosa è un mondo? Come creare un mondo? Nella Comune, nella domanda che ci si faceva in una città assediata e tradita, la domanda di ognuno diventava domanda comune: come fare a vivere insieme, come non essere governati in un modo che rende infelice le nostre esistenze? Come costruire una città in cui il gradiente di felicità sia il più elevato possibile? Appunto: come creare un altro mondo, visto che è possibile? Come fare del mondo un mondo in cui riconoscerci tutte e tutti, noi che viviamo adesso e in questo presente?

È una domanda che ricompare sempre, per lo meno ogni qual volta si dia una breccia che apre gli occhi dei viventi sulla superficie tutt’altro che lineare dell’esistenza. Per questo, ogni breccia, come sapeva Benjamin, si ricollega a quella precedente, e si apre a quella successiva, creando così una storia – una storia delle sconfitte e delle oppressioni che sono tali solo perché c’è stato un tentativo di costruire una storia differente – in cui ogni presente può ancora riconoscersi.

Se i “limiti” politici della Comune erano chiari a Marx, non c’è dubbio che la Comune si inscrive nella fenomenologia di quello “spettro” di cui aveva scritto appena ventitré anni prima. Se la lunga storia del comunismo del Novecento si è pensata come la storia del riscatto dei morti sul muro dei Confederati, la sua fine ha coinciso con la pretesa che nessun riscatto sia mai possibile. Che insomma, per dirla col Candido di Voltaire, tutto va bene così com’è.

Il punto è che non solo non va tutto bene, e di questo ne siamo testimoni, ma che non tutto è così com’è, se il presente non è solo il presente che vediamo, ma appunto tutto quello che ci rifiutiamo di vedere, tutte le parole, le grida, le possibilità, che in qualche modo manchiamo, perché le forze e gli strumenti da cui ci facciamo governare o con cui ci autogoverniamo ci impediscono di vedere bene tutto quello che siamo, e l’adesso che viviamo, una volta per sempre.

“La storia è oggetto di una costruzione il cui luogo non è costituito dal tempo omogeneo e vuoto, ma da quello riempito dell’«adesso»”, scriveva Benjamin. Ogni generazione vivente ha i suoi adesso e si misura forse con la grandezza, il gradiente di possibilità, che i suoi adesso attraversano. Senza questa misura, la storia appare come una linea continua, sonnolenta, funzionale a fare di ogni presente l’ombra delle potenzialità di mondo che invece in esso si esprimono. È attraverso la meditazione sulla storia delle brecce, sulla storia di tutti i mondi e di tutte le possibilità sconfitte, che quanti vivono l’adesso possono scoprire di essere più, o semplicemente diversi da ciò che sono, assumendo il presente, tutto il presente, nella sua totalità, e dandogli cittadinanza.

Gli Stoici praticavano, alla fine di ogni giorno, un esame di coscienza: quali azioni ho compiuto non conformi alla ragione del mondo? Chi guarda alla storia della Comune, e ripensa al muro dei Confederati, può forse, semplicemente, fare lo stesso: quali azioni ho compiuto e posso compiere perché il presente sia conforme alla ragione di un mondo che, per essere tale, non può essere di pochi? E questo non per generosità etica, o non solo: ma perché nella felicità e nella libertà del mondo ne va delle mie stesse.

Il presente non è muto: è il nostro modo di governarci, è la nostra stessa pretesa di pensare il nostro modo di governarci come l’ultimo e supremo esempio delle sorti progressive dell’umanità, a farcelo credere. Si può sempre fare diversamente: lo spettro della Comune, che raccoglie le brecce passate – Spartaco, le rivolte dei contadini tedeschi, la prima comune parigina – e quelle successive, riaffiora così ogni qualvolta il presente si squarcia. Ogni qualvolta cioé che  una generazione scopre che la creazione del mondo non è ancora finita, che è anzi suo preciso compito continuarla, e che essa non sarà mai veramente conclusa fino a che non sarà considerato scandaloso negare ad un vivente il diritto alla gioia.

Quel che è morto non cade fuori dal mondo. Rimane, come breccia passata su mondi possibili e resi impossibili, come insubordinazione del tempo al tempo. Come spettro senza pace alla ricerca di una voce qualunque, attraverso cui parlare. Viva la Comune.