E adesso vacciniamoci dalla retorica del sacrificio

di Gianfranco Ferraro (ITA 07.08.2021)

Mi sono vaccinato con la seconda dose di Pfizer. L’ho fatto per diritto, per scelta, non certo per obbligo, o per “responsabilità”. E c’è, in questo, una differenza sostanziale.

Mi spiego. Mi sono vaccinato perché un filamento di Rna virale non è certo la prima cosa che mi metto in corpo senza sapere perfettamente cosa mi provocherà in futuro. Mi sono abituato a vivere con un certo fatalismo e non nascondo, d’altronde, un certo gusto della sfida per le cose “sperimentali”. Non dubito troppo, poi, che la sperimentazione medica, e non solo, sia utile a capire meglio il nostro corpo e a comprendere come l’umanità possa, a lungo termine, vivere meglio: fare delle cose che altrimenti non avrebbe potuto fare. Il mio non è insomma un rapporto granché ottimistico con la tecnica, tantomeno con quella medica: in ogni chirurgo, dico spesso ridendo, c’è una differenza di grado, non di essenza, rispetto l’arte del mio macellaio. Certo è che se il mio macellaio mi salva il piacere del pranzo, è un dato di fatto che i buoni chirurghi hanno salvato qualche vita, proprio sperimentando corpo su corpo, e senza dubbio a qualcuno di loro mi affiderò, sornione, se proprio vi sarò costretto, per tornare al più presto dal mio macellaio. Sono convinto che, sperimentando, ogni tanto, ci si azzecca.

Questo è però un ragionamento che attiene a me e al mio personalissimo rapporto con la vita e la morte. In mancanza di “obbligo giuridico”, i miei interessi non possono e non devono essere quelli di tutti, a meno che ciò non sia, appunto, “normato”. Sarebbe bene, in ogni caso, chiamare le cose con il loro nome: sperimentare è sperimentare. E questa è una sperimentazione.

È a partire da questa posizione che trovo francamente stucchevole, oltre che veramente inutile, la retorica “sacrificale” per cui i vaccinati si starebbero sacrificando, e, quindi, sarebbe giusto far pagare ad “altri” per lo meno un prezzo. In questo vedo l’ombra lunga che ogni apocalisse ha comportato: l’introduzione, appunto, di una logica sacrificale nella prassi di governo. Quando il male entra nella storia umana, l’impossibilità di essere felici causa un risentimento diffuso: si crea una logica – e Nietzsche questo lo spiega benissimo – per cui per il male e la sofferenza occorre far corrispondere un prezzo a qualcuno. Tra gli Aztechi, la crisi apocalittica, potenziata se non provocata dall’invasione dei conquistadores, si tradusse in una corsa ai sacrifici umani. Le grandi epidemie medievali si tradussero frequentemente in una caccia al “diverso” a cui farle pagare. Parlando del grande disastro di Lisbona, possiamo ancora sorridere con Voltaire sulla caccia alla responsabilità da parte del clero cattolico.

È la normalità delle nostre emergenze storiche, forse. Ora, se proviamo ad osservare con un po’ di distanza la violenza del “dibattito” di questi giorni, o forse, più semplicemente, la polarizzazione in atto, soprattutto in Italia, intorno non tanto ai vaccini, quanto al tentativo di distinguere chi si è vaccinato da chi non lo è, ecco, troviamo una retorica corrispondente a questa logica. Bisogna farla pagare a qualcuno: c’è solo da trovare il modo. Forse è troppo tardi per uscire da questa logica che ormai si installa fin dentro le relazioni e che cambia direzione a seconda del momento e dell’obbiettivo. Mi sembra, se così posso dire, lo “spirito del tempo” di una umanità infelice che chiede conto della propria infelicità e, non potendo accusare neanche più Dio, deve imputare a un proprio simile la colpa del male. Mi sbaglierò, ma la pandemia ha solo collaudato e potenziato questa logica, dandole altri strumenti, altri obiettivi. Si cerca da tempo un “capro espiatorio”: si continua a cercarlo.

Del resto, il modo di procedere di tutte le nostre istituzioni non fa che aumentare questa logica così come la retorica che l’accompagna.

Lo Stato italiano, per esempio, non ha imposto alcun obbligo vaccinale. Al contrario, se avesse ritenuto di farlo per difendere la pubblica incolumità di fronte ad un rischio estremo, avrebbe avuto, come ha spiegato bene Sabino Cassese, tutti gli strumenti politici e amministrativi per procedere. Lo Stato ha invece determinato la possibilità di un diritto sperimentale, senza determinare un dovere giuridico: ad ogni cittadino è stato dato di fare una valutazione basata sulla sua personalissima valutazione costi/benefici, confidando esclusivamente nella sua capacità di informarsi e di scegliere in forma corrispondente. Si assume, in questo senso, per lo meno giuridicamente, la possibilità di un errore di valutazione, sia da parte dello Stato che da parte del cittadino. Una possibilità di errore dato dal fatto che le procedure scientifiche non sono ancora state in grado di determinare adeguatamente né i rischi né i benefici a lungo termine. Del resto, sappiamo da sempre come i protocolli sperimentali si reggano su delle condizioni fiduciarie che mescolano il pressappoco con la precisione (pensiamo a Kuhn, ma anche a Gargani): alla fin fine, di fronte ad un fenomeno nuovo che irrompe drammaticamente nello sviluppo dei paradigmi, la scienza moderna decide una strada – “si fa così e basta” – continuando, nel frattempo, a sperimentare e cercare strade nuove. Questo vale per i vaccini come per ogni altra medicina. Diciamo allora che sarebbe bastato, in questo anno e mezzo, un po’ più di umiltà scientifica da parte dei tanti scienziati trasformati improvvisamente in direttori di coscienza televisivi per riportare le cose al loro posto. La corsa alla infodemia ha invece attribuito alla scienza moderna uno statuto di “direzione spirituale” che essa per statuto rifiuta, ma che, purtroppo, non hanno rifiutato molti dei suoi rappresentanti.

La stessa cosa, chiaramente, vale anche per vari colleghi filosofi che, più che dare risposte o patenti politiche, dovrebbero formulare domande, andare a fondo dove tutto sembra più ovvio, continuando a porre interrogativi senza pietà: tutte le volte che questo non è accaduto, indipendentemente dalla tesi difesa, si è trasformata la filosofia in una direzione di coscienza. Purtroppo, le volte in cui qualche interrogativo è stato formulato, magari non con l’umiltà (e ci può stare) dovuta alla complessità della situazione, si è scatenata una reazione che poco ha a che vedere con la filosofia e molto con la retorica.

Ma anche questo, e torniamo indietro, ha a che vedere con la carenza di decisione politica.

Se la questione si sposta però su questo piano – e cioè sul piano normativo – l’obbligatorietà dell’azione può sancire, da parte dello Stato, l’assunzione di una direzione delle scelte politiche e individuali. Anche in questo caso, però, si tratta di una direzione giuridica, e in nessun caso morale. In assenza di obblighi giuridicamente fondati, i consigli della scienza (come anche della filosofia, o, che so, dell’astrofisica) possono essere sufficienti per alcuni e non per altri. Possono bastare, ma anche no.

In mancanza cioè di un obbligo da parte dello Stato, non è dunque possibile parlare di “dovere”. A meno che la questione non si sposti su un piano strettamente morale, non contemplato nei nostri codici. Purtroppo, proprio questa mancata, drammatica incapacità degli Stati di tradurre una etica della responsabilità in atti amministrativi pubblici e trasparenti, determinando cioè un obbligo giuridicamente sanzionabile – che è tutto ciò che uno Stato di diritto può fare –, ha dato vita, da una parte, ad una serie di misure d’emergenza che hanno, di volta in volta, tentato di rispondere al “bene comune” considerato come prevalente, dall’altra a misure “induttive” o “restrittive” di comportamenti. L’assenza di norme uguali per tutti, certificabili e sanzionabili, certifica però, al contrario, una deresponsabilizzazione normativa.

Ed è proprio il vuoto creato da questa deresponsabilizzazione normativa a dare il via libera ad altre forme di sanzionamento dei comportamenti individuali. Detto diversamente: il sonno della ragione normativa genera così i mostri della sostituzione della morale alla politica. Al cittadino non resta che rappresentarsi privatamente quale sia il “bonum commune” così come gli strumenti più adeguati per conseguirlo, dando patenti di eresia ora ad uno ora all’altro. La res publica senza timonieri adeguati pullula così, improvvisamente, di Savonarola o di Catoni che, impotenti politicamente, si affidano alla morale. E dalla morale alla retorica del sacrificio il passo è purtroppo breve.

In Italia, particolarmente, questa sostituzione del discorso morale a quello politico ha radici lunghe di almeno trent’anni. Da quando, cioè, prima con Tangentopoli, poi lungo il Ventennio berlusconiano, e infine con il populismo grillino, si è pensato di poter sostituire l’impotenza o l’incapacità di rispondere ai bisogni di rassicurazione sociale agitando una semplice questione morale. E non può sfuggire come un certo moralismo di questi giorni, al centro della vita politica, sia apparentato con quello: anche qui, indipendentemente dalla tesi difesa.

Andando un po’ indietro nel tempo, in pieno Ottocento, verifichiamo come, ben prima di essere sanzionate dallo Stato, le forme di identificazione della devianza (sessuale, criminale, patologica in senso più o meno lato) si siano accompagnate a forme di sanzionamento morale. L’epoca vittoriana, come scriveva Foucault, ha brillato di una luce riflessa data proprio dalla nascita della perversione: la definizione di una norma di protezione sociale si è accompagnata all’allontanamento morale del perverso, portatore di malattie per il resto del corpo sociale.

Ora, tutta questa storia sembra essere stata rimossa, in nome di una inedita eccezionalità. Che inedita non è, storicamente, anche se è inedita per i moderni Stati di diritto. Eppure, alcuni strumenti per fare diversamente, proprio dentro il nostro diritto, li avremmo avuti. La cura del “corpo sociale” non implicherebbe automaticamente il sanzionamento biopolitico e morale. Il nostro “stato di diritto” nasce proprio da un tentativo di mediare la forza assoluta dello Stato, riformando le sue pratiche disciplinari attraverso una responsabilità condivisa del “corpo individuale” e insieme del “corpo sociale”. La difesa dell’intangibilità del corpo individuale è condivisa socialmente, e non è alternativa ma complementare alla difesa del corpo sociale. Questa mediazione tra assoluto dello Stato e difesa dell’habeas corpus, appunto, deve essere però esplicitata politicamente e giuridicamente, definita attraverso strumenti, controllabili, del diritto. Del resto, tutte le buone pratiche di “cura dei corpi” – storicamente di “sinistra” – hanno tentato di incardinarsi proprio dentro la maglia giuridica di uno Stato che non dismette il proprio spirito democratico iniziale, trasformando anzi lo stesso diritto dello Stato. Lo Stato di diritto nasce cioè dal tentativo di combinare l’opposizione Stato/democrazia proprio attraverso un processo di riforma dello Stato che passi attraverso i contrappesi istituzionali o istituenti prodotti dallo spirito democratico. Sono proprio questi contrappesi ad agire direttamente sulla definizione dei limiti tra libertà responsabile del singolo – cioè del suo corpo – di fronte allo Stato, e azione dello Stato come rappresentante del “corpo sociale”.

Rinunciare troppo superficialmente a interrogarsi su questo ganglio vitale dello stato di diritto, come sta accadendo in nome dell’emergenza e come presumibilmente continuerà ad accadere nei prossimi anni, produce uno svuotamento della consistenza stessa del “cittadino” e di converso dello stesso stato di diritto. La retorica di una moralizzazione dei comportamenti e l’introduzione di una logica sacrificale sono gli strumenti “governamentali” con cui si attua questo svuotamento: il singolo è “indotto” ad avere cura di sé in un certo modo piuttosto che in un altro, senza però che ciò si traduca esplicitamente in obblighi normativi e, conseguententemente, in responsabilità della collettività verso l’individuo. La pandemia accelera semplicemente questo processo.

Del resto, non da ora, come spiega Michel Foucault in alcune pagine tra le più importanti di Sorvegliare e punire, le società in cui compare un’epidemia sono i luoghi in cui si sperimenta un’utopia del governo. Coscienti di questo – come lo è stato qualunque “democratico” fino a poco prima della pandemia – dovremmo per lo meno intuire che è proprio mentre l’epidemia avviene che occorre discutere, pensare, criticare, senza agitare i fantasmi dei morti di epoche lontane o troppo vicine. La retorica è, per definizione, amica delle metafore: dei phantasmata che ossessionano una società. La retorica vuole vincere più che persuadere: è terreno di avvocati e di retori. Non di cittadini democratici. Non dovrebbe esserlo neanche di medici e filosofi.

Nell’affidarci alla retorica moralizzante e alla logica del sacrificio vediamo allora forse tutta la crisi, prima ancora che delle nostre istituzioni, della nostra capacità di pensarci come cittadini. È invece attraverso la debole arte della critica, della trasparenza, che si produce il diritto, fondato appunto sulla chiamata in corresponsabilità dei cittadini all’arte del governo. Persino di una pandemia.

Da quel che vedo, una sfiducia profonda dilaga invece in una certa parte più colta e “formata” della società e, certo, le ragioni non mancano. Si va così sottilmente formando una nuova logica della “direzione di coscienza sociale”, la chiamerei così, che, senza farsi troppi problemi, fa a pezzi in un baleno i compiti storici disegnati per lo stato di diritto. Schematicamente: non c’è più una società di diritto, ma si disegnano simbolicamente due parti della società, una adulta e una infantile. Nessuna delle due crede più, per ragioni diverse, alla capacità dello stato di diritto di sopravvivere. Ed è per questo, prima che a causa di ogni altra misura, che il nostro stato di diritto probabilmente non avrà lunga vita. Semplicemente perché ha perso di senso per coloro che attraverso di esso dovrebbero governarsi.

Del resto, i nostri “stati di diritto” sono giovani, giovanissimi: comparati con l’esistenza storica dello Stato, sono essi stessi un’avventura della storia e un breve esperimento sociale. Forse non deve stupire se, alla prima grande bufera, questa combinazione tra Stato e democrazia si risolva decisamente a favore dello Stato: e la retorica, da qualunque parte provenga, ed esattamente come avveniva nel momento in cui le antiche democrazie greche si affidavano ai principi ellenisti e a Roma la Repubblica cedeva il passo agli Augusti, sostiene questo movimento.

Vaccinarci dalla retorica, abituarci a quel “pensare complesso” di cui parla Morin, forse aiuta a frenare questo smottamento di lunga data, a trovare un modus vivendi attraverso le crisi che costelleranno il XXI secolo. Occorre produrre anticorpi contro questa retorica. Funzionerà? Non è detto. Però, così come possiamo sperimentare degli antidoti sanitari, sperimentare innanzitutto questo antidoto  contro la facile moralizzazione di comportamenti non normati dalla mediazione giuridica dovrebbe essere il “dovere”, questo sì, morale, di ogni autentico cittadino democratico.

Altrimenti no, non andrà tutto bene.