Covid e culture. Quando il “postmodernismo” è una tragedia

di Pietro Saitta (ITA_09.08.2021)*

È sin troppo banale osservare che esistono eventi capaci di decretare agli occhi dei viventi la fine di vecchi universi culturali. La Prima guerra mondiale o l’attacco alle Torri gemelle sono stati alcuni di questi eventi apparentemente spartiacque. La pandemia da Covid-19, lo vediamo, non è da meno e ha anzi un impatto quotidiano decisamente più tangibile e “livellante” di eventi che significarono molto per la vita alcuni e molto meno per tutti gli altri, se non nei termini di una trasformazione degli immaginari. Oppure in quelli legati all’introduzione di misure di sicurezza e ostacoli alla mobilità la cui relazione con gli eventi causali finisce però presto con l’offuscarsi, assumendo peraltro caratteri selettivi, legati alla nazionalità dei soggetti. Quel che rende impari le percezioni delle misure e il loro impatto sulle vite delle popolazioni; oppure che finisce con l’assumere un carattere tecnico, i cui nessi con la cronaca o con la storia recente non appaiono immediatamente riconoscibili per chi non possiede memoria storica o non è addentrato a un certa letteratura.

Di norma la gran parte di questi eventi spartiacque – dotati cioè della capacità di rappresentare agli occhi dei più un passaggio d’epoca sul piano politico, sociale e culturale – non hanno però un potere davvero generativo. Al contrario sono eventi prodotti e resi possibili da condizioni che sono andate alterandosi già da tempo e che segnavano esse stesse, nel loro minuto susseguirsi, la silente fine di un precedente universo di relazioni sociali, equilibri politici, modi di produzione e situazioni ambientali. Gli eventi spartiacque, insomma, rendono espliciti e urgenti ciò che prima erano temi tecnici, coltivati da esperti o attivisti politici; oppure questioni di cui tutti avevano un qualche grado di cognizione, ma che stentavano a essere riconosciute come importanti.

La crisi pandemica di questi anni, dunque, è uno di questi eventi che esplicita ciò che prima era seppellito nella tecnica, nei discorsi degli esperti o nella discussione disimpegnata sul cambiamento di costume. Temi, per citarne solo alcuni, come l’impatto del disboscamento sulla salute pubblica e globale, l’effetto dei tagli sulla sanità, oppure l’effetto dei nuovi media e dell’organizzazione della didattica sulle conoscenze e le modalità cognitive della popolazione. La crisi, in particolare, rende evidenti gli intrecci tra temi e sotto-settori dell’organizzazione sociale, svelando il modo in cui ciascuna parte contribuisce a quello che, con un vecchio gergo funzionalista, potremmo chiamare “equilibrio sistemico”. Nel fare ciò, la crisi svela anche le inadeguatezze, il pluralismo delle culture  (di chi governa così come di chi è governato), insieme alle scissioni e alle forme di autonomia dei luoghi di produzione e di ricezione di queste stesse culture. A dirla tutta, la crisi pandemica mostra la centralità della cultura – o, meglio, delle culture – nell’organizzazione e nella gestione del presente. Lì ove per cultura occorre intendere tanto l’insieme dei saperi specialistici prodotti di prima mano da chi è attivo nella produzione di conoscenze, così come le loro forme mediate (a opera rispettivamente di esperti di secondo livello che traducono le acquisizioni scientifiche per la politica, e di differenti media che eseguono la stessa operazione a favore di un pubblico generalista) e le loro ricezioni (nell’ambito della politica, della dirigenza e della società nei suoi differenti strati) secondo modalità utili a intraprendere politiche pubbliche, amministrare il quotidiano negli ambiti decentrati delle istituzioni pubbliche e, infine, a conformare le azioni individuali sulla base di criteri cooperativi od oppositivi. 

La tesi di questo articolo, dunque, è che la pandemia abbia messo in luce la crisi complessiva della cultura. Una crisi che segue di frequente dibattiti e cesure di tipo globale – determinati da eventi politici, autori e prodotti di circolazione internazionale – nel loro incontro con vicende e dibattiti nazionali. Ciò che dà forma alle differenze, alle diverse composizioni sociali delle lotte (per esempio, i Forconi in Sicilia e i Gilet Gialli in Francia) oppure alle declinazioni progressiste o conservatrici di fenomeni apparentemente simili. Una crisi, per di più, che ha reso evidente come la manipolazione della cultura costituisca uno dei principali ambiti per l’esercizio del conflitto tra parti di una medesima società e tra stati. Insomma i conflitti internazionali vedono sempre più la manipolazione culturale in un paese bersaglio – ossia il controllo dell’agenda di questi paesi, dei simboli emersi dalla contingenza e delle loro interpretazioni – come un terreno centrale per gli scontri all’interno di uno scenario che, almeno in Europa occidentale, non vede praticata da molto tempo la guerra condotta sul campo.

In altri termini, la crisi pandemica, e in particolare il paragrafo vaccinale, mostrano non tanto la centralità del fenomeno sanitario, ma quella della lotta per l’egemonia, ossia per la direzione culturale, nel quadro politico contemporaneo (à la Gramsci). Una lotta per il senso comune, e per il raccordo tra questo e le condotte individuali, che ha molti attori sparsi, non sempre organizzati tra loro, con collocazioni e storie diverse pur se compatibili, accomunati tuttavia dall’avere scorto nella pandemia un punto d’ingresso per diffondere prospettive concorrenti.

Si è premesso tuttavia che gli eventi contrassegno svelano una serie di mutamenti precedenti, alcuni dei quali molto ovvi, e che vale tuttavia la pena ricordare. Il primo è la vittoria del “postmoderno” in senso ampio, come categoria di senso comune e come ideologia implicita, fondata su varie forme di disimpegno e sul presupposto di uguaglianza delle posizioni, che guida le condotte e i posizionamenti individuali e collettivi. La lotta tra cultura alta e cultura popolare – un tema progressista, che, a partire dai tardi anni cinquanta, è appartenuto alle sinistre e a settori avanzati delle discipline del sociale (in primis all’antropologia culturale) in Europa così come negli Stati Uniti, per poi approdare, a partire grosso modo dagli anni 1980, al discorso e al senso comune dei mass media generalisti – interpreta un ruolo fondamentale a questi fini. Sorto in ambito storico per mostrare il carattere intrinsecamente conflittuale della cultura subalterna – quella dei contadini e degli operai industriali – questo approccio alla lettura dei significati concorrenti e profondi delle culture marginali storiche, diventa gradualmente un modo di lettura della società contemporanea, investendo ambiti via via più estesi delle discipline della cultura interessate al presente; ossia, riassumendo brutalmente, alle subculture così come alle culture “pop”, intese come insieme di forme espressive “facili”, orientate al mercato, ma dotate di una poetica e di una capacità di connessione con l’esperienza quotidiana dei fruitori che le rendevano un oggetto serio. Insomma il pop come fatto sociale, concorrente coi grandi “testi” (libri, opere, film, pittura etc.) fondativi della cultura ufficiale, radicato nella società reale e meta-testo utile a una comprensione sociologica del contemporaneo.

Queste trasformazioni della critica e, successivamente, del senso comune, per finalità inizialmente politiche (consistenti nell’includere, giustamente, il mondo subalterno tra i soggetti produttori di senso, potere e conflitto) e poi a fini di semplice disimpegno e per l’adozione di una postura scanzonata (ciò che consentiva di mettere su uguali piani di dignità Brahms e Battiato, Farinelli e Freddie Mercury, Liala e le scrittrici vittoriane) progrediva integrando ulteriori idee: per esempio, che la conoscenza è situata; che la storia è scritta dai vincitori, o persino che è una “narrazione” che riflette la demiurgia dell’autore; che la verità delle istituzioni nasce entro queste e ne riflette le finalità, tagliando fuori pezzi della società; che esiste la possibilità di una “contro-storia” e che gli autori che la praticano sono scomodi e spesso rimossi.

È infinita la lista delle giuste acquisizioni relative alla parzialità dei processi di conoscenza che sono transitate nel senso comune politico; e provare a riportarle tutte è un lavoro immane. Direi allora che contano soprattutto la direzione e gli esiti generati dalla diffusione di questa sensibilità “critica”. Per esempio la progressiva svalutazione delle gerarchie dei saperi e, in particolare, il discredito dei luoghi ufficiali di produzione della cultura e del personale deputato. Nel caso italiano (ma non solo in questo; si pensi all’infinità dei dossier sui professori marxisti negli Stati Uniti, prodotti da organizzazioni variamente conservatrici attive in quel paese), il discredito dell’Università come luogo del mero privilegio, infiltrato peraltro dalla “sinistra”, ne è un tipico esempio. Mentre un altro caso celebre è la caratterizzazione della storiografia italiana come filo-sabauda e anti-meridionalista. Quello che ha determinato l’assurgere di giornalisti, eruditi e appassionati di storie locali al ruolo di storici deputati al ripristino della “verità”. Ciò, in fondo, che segna una evoluzione di quell’antico fenomeno italiano per cui giornalisti come Indro Montanelli e Bruno Vespa – per limitarsi a due dei casi più famosi – possono rivestire il ruolo di storici, insegnando una caricatura della storia nazionale agli italiani (peraltro con strumenti raffinati e di larga circolazione come i fumetti).

Ma la vera questione è cosa accade quando delle idee necessarie e fondate come quelle che maturano nella cornice ampia del postmodernismo (che qui viene impiegato includendo approcci che postmoderni lo sono solo in senso latissimo) incontrano gli usi spregiudicati e consapevolmente politici?

Insomma cosa succede quando quella che possiamo definire la fine dell’imperativo delle genealogie rigorose finisce nelle mani di sapienti bricoleur à la de Benoist, col fine di andare “oltre la destra e la sinistra”, l’“occidente” e l’“oriente”, il marxismo e il capitalismo, la scienza e la new age? Accadono evidentemente molte cose: alcune delle quali riguardano il campo “interno” alla produzione culturale e politologica (investono cioè il mondo della critica oppure della letteratura politologica); mentre altre concernono il campo “esterno”, quello cioè dei non-esperti, aperti però alle novità, liberati dal peso delle “vecchie” ideologie e pienamenti “moderni”.

È, insomma, la possibilità data nel 1993 a un innocente Jovanotti di potere cantare e affermare, in perfetta sintonia con un pensiero già comune al tempo, che: “Io credo che a questo mondo esista solo una grande chiesa/ che passa da Che Guevara e arriva fino a Madre Teresa/ passando da Malcom X attraverso Gandhi e San Patrignano/ arriva da un prete in periferia che va avanti nonostante il Vaticano”.

Non c’è bisogno di spendere spazio per mostrare come quello che fu un candido tormentone è in realtà un’apoteosi convinta dell’inaccostabile, della negazione della storia e della storia delle idee. E di come quel nonostante il Vaticano segni il preludio di un sentimento antipolitico che si sarebbe strutturato nel corso dei quindici anni successivi, prodotto di una temperie sistemica che, per lo meno nel caso italiano, andava concretizzandosi nello scandalo di Mani Pulite, nello scioglimento del Pci e degli altri partiti storici del dopoguerra. E anche nel risentimento collettivo (destinato però a trasformarsi in nostalgia) per un sistema corrotto, che impiegava le ideologie per fini strumentali, e che aveva diviso il paese tra integrati ed esclusi dai privilegi. Un “nonostante il vaticano”, dunque, che implica la possibilità per le buone idee e per i buoni sentimenti di vivere nelle persone, al di fuori delle strutture organizzate e oltre le divisioni ideologiche. Un truismo lapalissiano, potremmo dire, per cui il bene è il bene e il male è il male.     

Riepilogando, il mondo che, nel caso italiano così come in molti altri, va consegnandosi nei suoi grandi numeri al qualunquismo, all’a-storicità, all’apparente odio per il “sistema” (ma meglio sarebbe parlare di ambivalenza) e alla cultura del sospetto, è dunque un mondo in cui sono saltate le gerarchie relative ai saperi; in cui la cultura “alta” viene identificata con la partigianeria e il privilegio; in cui la scienza è solo un fatto di idee equivalenti; e  in cui non c’è sostanziale differenza tra alto e basso, a parte forse la ricchezza.

Alla domanda originaria dovrebbe perciò aggiungersene un’altra relativa a cosa accade quando questa visione incontra organizzazioni politiche dai caratteri finalmente “moderni”: ossia post-ideologiche, prive di strutture direttive e sedi fisiche, attive in uno spazio virtuale (com’è ovvio, anche le tecnologie della comunicazione giocano un ruolo fondamentale in questo processo) ed essenzialmente manichee? Per essere chiari, nel caso italiano, organizzazioni come quella del Movimento 5 stelle, oppure, in un caso “globale”, come quelle messe in piedi dalla destra radicale americana di Steve Bannon (che è solo un nome tra l’universo di attori e sigle attive).

Accade evidentemente che il nonsense si istituzionalizza, si organizza, diventa partito o cerca alleanze con i partiti (la Lega in Italia, il Partito Repubblicano negli Stati Uniti etc.). Accade che un senso comune a-storico, slegato dal problema delle genealogie e delle origini delle idee così come delle persone, possa proporre idee sulla società, individuare nemici e eleggere l’irrazionalismo anti-scientifico a guida delle condotte pubbliche e individuali, autoproclamandosi esempio di pensiero “critico”, “non allineato”, in lotta contro i poteri forti e la dittatura del pensiero unico. È un mondo, come non è originale a dirsi, che celebra la minoranza in lotta, che si alimenta del mito del Cassandra, ossa di colei che aveva visto il futuro senza essere creduta, e di altri miti popolari relativi ai buoni re oppure ai cavalieri in rivolta contro la nobiltà (come nel caso di ex generali che svelano gli esperimenti dei militari, oppure degli ex membri dei servizi segreti che denunciano le malefatte dei governi).

È perciò anche un mondo di “controinformazione”; di fatti “alternativi”, non dimostrabili ma credibili, perché denunciati da membri pentiti dall’establishment, da avvocati ben inseriti nel sistema e da membri critici di una immaginaria borghesia in rivolta (in fondo la storia di questa nuova controinformazione è sempre una storia di borghesi che remano contro la propria classe: come si è detto, avvocati, politici dissidenti, ex poliziotti, ufficiali dell’esercito etc. Ricordiamo che in fondo parliamo di una vicenda sostanzialmente piccolo-borghese, che le gerarchie sociali le ha ben incorporate e che, da ultimo, sogna di potersi consegnare a un potere paterno e benigno).

Cosa accade dunque quando queste forme mentali collettive e semi-generalizzate vengono arruolate in un conflitto particolare, come per esempio quello che ruota intorno alla pandemia? Un conflitto che da un lato vede impegnarsi popolazioni segnate da queste storie insieme politiche e culturali di lungo periodo, e, dall’altro, dei governi marcati dagli stessi tratti ideologici, anche quando sono guidati e sorretti da banchieri, tecnici e membri dell’alta borghesia. Cosa avviene, cioè, quando le controparti governative sono screditate in quanto potere (per il semplice fatto di essere potere); ma sono al contempo de-ideologizzate e culturalmente dipendenti da quel problema del consenso che è proprio delle “società del sondaggio”, in cui il gradimento di ogni azione è soppesata da agenzie di rilevazione per conto dei quotidiani, oltre che dei governi e dei partiti che li compongono?

Se questi sono problemi e dinamiche valide in molti paesi, contano comunque molto le storie nazionali. Venendo così all’Italia, cosa ne è di governi che appaiono schiacciati a ogni livello dalle minacce giudiziarie proprie di una società che ha assegnato un peso straordinario alle “vittime” (quelle della malasanità, così come quelle di politiche economiche accusate di avere determinato danni ingiusti etc.)? Di governi che devono mediare tra istanze irrazionaliste penetrate ormai in seno alle istituzioni e tra interessi legittimi e diffusi? Inoltre cosa ne è di istituzioni che agiscono dentro ecosistemi mediatici complessi, che, insieme ai giganti dell’editoria spesso saldati con la politica, vedono attive una pluralità di  realtà editoriali intermedie e influenti, ma impoverite, dipendenti dai click e, dunque, dedite allo scandalo facile? Di governi, cioè, che si trovano dinanzi a un giornalismo – ovvero al problema della costruzione di una opinione pubblica – realizzato da individui spesso non più colti del loro pubblico, cresciuti nel medesimo senso comune del resto della società, la cui socializzazione politica, intellettuale e professionale si è frequentemente forgiata nel caso degli operatori più giovani attraverso le categorie concettuali create da Striscia la notizia e Le iene, dal complottismo di Beppe Grillo così come, più tardi, quello “creativo” di Catena Umana, Informarexresistere e ImolaOggi, ByoBlu e dei meme anonimi su Facebook. Vi sono pochi dubbi infatti che titoli, argomentazioni, espressioni e categorie analitiche siano, nel caso di molto del giornalismo italiano, automatismi culturali frutto degli stessi processi di semplificazione intellettuale che hanno attraversato la società nel corso di un trentennio, tanto che si parli di crisi sanitaria quanto di di decoro o criminalità.

È altresì evidente che in una situazione in cui agiscono mille forme di inadeguatezza culturale interne ed esterne agli apparati pubblici, l’arte del governo si faccia complessa al limite dell’impossibile. Soprattutto perché è impossibile apparire autorevoli. In particolare quando è la prospettiva di una fama pubblica, anziché limitata al grigiore degli uffici ministeriali, a sedurre quegli esperti che dovrebbero essere votati al silenzio. Quegli esperti che la macchina mediatica invece coopta, inducendoli a esternare punti di vista semplificati, a misura di spettatore medio. Punti di vista semplificati che servono a rendere mediatizzabile e re-invitabile l’esperto stesso e che lo inducono ad alzare perennemente il tono delle dichiarazioni, col fine di allarmare o rassicurare, insultando gli “irresponsabili” o erogando “ottimismo”. Incarnando e diffondendo dunque quell’incertezza che rappresenta il normale statuto di una scienza divenuta sempre più probabilistica e sempre meno in grado di fornire certezze. Oppure producendo simulacri dei normali dibattiti scientifici specialistici; quelli invisibili, che si svolgono a colpi di articoli e risposte tra pari sulle riviste scientifiche, e che costituiscono il quotidiano della ricerca anche quando si parla di aspirina.

Simulacri di quei dibattiti normali che si svolgono tuttavia dinanzi a un pubblico che in larga parte ne ignora esistenza e modalità di funzionamento, e che è ancora positivista nelle aspettative. Un pubblico che intende la scienza come certezza e che, mischiando l’immischiabile, si stupisce che si possa andare nello spazio mentre non si possano individuare cure (domiciliari?) per una malattia oppure un vaccino sicuro; che vede nelle insicurezze degli scienziati conferma di quell’assunto “postmoderno” per cui, in fondo, le conoscenze sono opinioni e che non vi è davvero bisogno di essere scienziati per avere un’idea su un virus o un vaccino. E che tanto vale, dunque, affidarsi all’esperto che appare più vicino alla propria visione o a quello che rappresenta un riferimento per la propria area di opinione; quest’ultima costituita da individui altrettanto incompetenti e ciò nonostante, a proprio modo, informati.

Non importa, inoltre, che tali ruoli di riferimento siano spesso assunti da semplici nutrizionisti, da sedicenti candidati al premio Nobel per le scienze, da produttori di integratori alimentari o da professionisti medici non impegnati nella ricerca. Appare più complicato del dovuto, infatti, spiegare che esistono livelli di competenza, e che la ricerca è cosa ben diversa dalla pratica professionale. Così come non è facile spiegare, o forse comprendere, la differenza tra un articolo pubblicato su rivista scientifica e un articolo semplicemente appoggiato su un sito repository, oppure la distinzione opportuna tra i risultati di una ricerca non ancora pubblicata consegnati in anteprima alla stampa d’informazione e quelli finali, che seguono la verificazione del gruppo dei pari. Ma, d’altra parte, come fare a pretendere piena fiducia e rispetto per un mondo che, come quello delle riviste scientifiche di alto impatto, ha più volte pubblicato articoli dai contenuti fasulli vedendosi poi costretto a ritirarli?    

È arduo essere governo quando la complessità interna di un fenomeno e l’impatto di questo sulla vita fisica e sociale sono tali da fare tremare i polsi. Ma lo è ancora di più quando l’incertezza, la confusione e la paura sono coltivati oltre lo stretto necessario da un sistema di intermediazione tra istituzioni e società – costituito dai media – che si riproduce attraverso la creazione di contenuti emotivamente significativi. Contenuti che sono emotivi anche quando hanno per oggetto numeri o dichiarazioni dal carattere tecnico. E diventa ancora più arduo quando il pubblico ha una limitata capacità di comprensione di dati statistici, di dinamiche biologiche dalle caratteristiche controintuitive, delle eccezioni ai principi generali appresi e, soprattutto, quando questo denota una limitata propensione a distinguere tra dimensioni strettamente medico-scientifiche e dimensioni politiche (lockdown, divisioni per colore e parametri, green pass etc.), tra fonti attendibili e inattendibili, tra esperti qualificati e sedicenti esperti interessati a perseguire agende particolari.         

È difficile essere governo quando nella regolazione si insinuano le campagne globali di disinformazione organizzate da gruppi neo-fascisti, oppure dalle frazioni concorrenti del “capitalismo sanitario”. Insomma non solo le campagne di “Big Pharma”, ma quelle della medicina alternativa e della new age e degli spiritualismi, saldatesi ormai con una galassia reazionaria, spesso dotata di mezzi finanziari ingenti e capacità di influenza, in modo affatto simile a quanto accaduto un secolo fa con il “Nazismo magico”, per usare la nota formula di Giorgio Galli.

Un’alleanza antica, dunque, a base di spiritualismo, individualismo, intuizione e aggregazione dei simili. Valori ed esperienze intime, che, nella ricezione e nella vita vissuta di chi è interno a pratiche e a discorsi anti-sistemici e anti-sanitari, non sono certo identificabili con la destra e con la sinistra. E che producono “comunità”, ossia aggregazione dei simili (dei “risvegliati”), in una prospettiva che coniuga medicina alternativa e sospetto per la scienza ufficiale. Insieme all’emersione di un senso di distanza crescente nei confronti di chi – magari vecchio compagno di viaggio in formazioni di sinistra – non avrebbe saputo distaccarsi da vecchie impostazioni, preconcetti e ideologie; prima di tutto quelle di matrice razionalista.

È dunque in questo contesto sentimentale che affiora un anelito alla libertà (per esempio “di scelta”, relativa al curarsi o meno, al vaccinarsi o meno, persino quando la patologia in questione non è individuale come potrebbe esserlo la pressione alta, ma una malattia estremamente contagiosa) e alla fuoriuscita parziale dalla società (per lo meno da quella “di massa”, giudicata conformista e sottomessa, soprattutto per gli aspetti legati ai doveri e alle forme della reciprocità). “Fuoriuscire dal gregge”, dunque, perché la società è in generale una struttura di oppressione che postula conformismo acritico e che vincola l’individuo dissidente. Uscirne per entrare in una “comunità” atopica e spesso virtuale di simili che hanno visto la verità.

Appare dunque difficile essere governo – ma anche di governo – quando a queste spinte secessive si aggiungono le pressioni di autorevoli intellettuali in difesa delle libertà. Di coloro, cioè, che pur capendo pochissimo delle tecnicalità esoteriche di pandemie, virus e statistiche, non rinunciano a riflettere sulla malattia a partire dai discorsi mediati e semplificatori; oltre che, naturalmente, a partire da misure di politica sanitaria – che vanno tuttavia distinte dalla dimensione virologica – oggettivamente incoerenti e dalla logica sfuggente, emerse dalle negoziazioni tra interessi contraddittori e non sempre ispirati al bene comune.

Diviene così complicato non farsi attraversare dai dubbi disseminati da quegli intellettuali di chiara fama che, tuttavia, avrebbero potuto parlare della pandemia facendo riferimento a una vastissima letteratura storica e a fonti documentarie che risalgono al 1300, e che invece hanno preferito procedere tramite analogie, come se non esistesse la possibilità di analisi che facessero riferimento alle categorie proprie del fenomeno pandemico. E che per questo scomodano il Nazismo e la questione ebraica. Facendo propri così i meme e le argomentazioni escogitate dalla destra radicale americana, poi prontamente tradotte da una vasta e non sempre interdipendente galassia  di organizzazioni europee.

Dovremmo parlare dunque degli intellettuali, più o meno celebri, innamorati delle proprie teorie oppure della rivolta. È tra questi che si rinvengono le icone del pensiero libertario tramutatisi in libertarian o anarco-capitalisti, oppure quelli invaghiti della “piazza” a prescindere. Di quanti, in altri termini, ritengono che questa vada sempre ascoltata, compresa e assecondata, “perché non va lasciata agli altri” (ai neofascisti e ai reazionari). Anche quando questi “altri” l’hanno egemonizzata e la dominano da decenni. Una presenza che si dice vada garantita anche quando questa piazza appare perfettamente integrata in un discorso che, oltre che anti-vaccinale e ostile alla “dittatura sanitaria”, è all’occasione anche xenofobo e anti-gender (come dimostrano certe pagine Facebook nate come anti-vaccinali o “pro-libertà” che hanno introdotto lentamente altri temi care alle destre, confermando così l’idea per cui l’epidemia è per alcune forze politiche un punto di ingresso attraverso cui diffondere una gamma di temi che va ben oltre il vaccino o la pandemia).

Piazze, inoltre, composte da persone che nella maggior parte dei casi non sono certo in grado di riconoscere la paternità occulta di un pensiero (tacere le appartenenze è infatti una strategia tipica dei gruppi collocati oltre la destra e la sinistra) e che in ogni caso non avrebbero esitazione, in nome della propria idea di libertà, a condividere lo spazio con  universi dichiaratamente reazionari (lo si è visto più volte allorché Forza Nuova ha scelto di manifestarsi e mettere a disposizione l’unico megafono di adunate anti-vaccinali che si dichiarano apolitiche). Piazze socialmente composite, per di più, che sono veloci a riempirsi allorché si tratta di difendere le libertà degli autoctoni nel corso di una pandemia, ma molto più restie a farlo quando si parla di persone immigrate, per cui la violazione delle propria libertà, a partire da quella di movimento, è un dato acquisito da decenni.

In conclusione, come anche altri hanno osservato, non è possibile affermare che l’epidemia determini nuovi fenomeni in gran quantità; invece li fa emergere tutti insieme e rende evidenti i motivi strutturali e culturali che hanno presieduto alla costruzione della contemporaneità nel corso di un tempo piuttosto lungo. Dal punto di vista culturale, oltre che probabilmente da quello fisico, stando per lo meno ad alcune accreditate teorie sullo spillover, la pandemia si sviluppa all’interno delle possibilità create da una fitta rete di attori guidate da intenzioni tra loro diverse e per fini spesso emancipatori. Dal punto di vista ideologico, culturale e dei sentimenti collettivi prevalenti, la condizione che esperiamo nell’incontro con una delle più gravi crisi mondiali da un secolo a questa parte appare, in generale, come la conseguenza dell’annientamento della consapevolezza storica (quella di essere dentro un evento con molti precedenti, che a lungo erano apparsi persino “normali”); della fine di molti degli imperativi metodologici nella produzione di analisi (la parola come azione performativa volta suscitare emozioni più che a indagare la logica materiale dei fatti); del crescente disinteresse per il problema delle genealogie concettuali (la coincidenza tra odierne rappresentazioni della libertà e la necropolitica, per esempio. Questo persino nelle recenti analisi di chi quest’ultimo concetto lo aveva riscoperto) e, infine, della prevalenza di forme libere di bricolage teorico (ciò che è reso possibile dal disinteresse per le genealogie).

Nel determinare le rappresentazioni della crisi concorre inoltre la prevalenza dell’esperienza sensibile e individuale su quella mediata dalle gerarchie classiche del sapere. Quelle che, entro un certo livello, postulavano effettivamente delle asimmetrie, la consapevolezza diffusa della loro esistenza e una legittimazione. Gerarchie e strutture del sapere, comunque, che nel tempo hanno saputo screditarsi da sole. Causando incidenti editoriali, in primo luogo; ma anche rifiutando di opporsi ai discorsi e alle politiche che ne ridimensionavano l’importanza e la reputazione, e accettando acriticamente i nuovi termini del gioco proposto da ideologie di governo che, per lo meno nel caso italiano, della cultura e della ricerca non sapevano che farsene (ma la situazione non è diversa altrove, malgrado la differenza della spesa pubblica per la ricerca autorizzi a pensare il contrario).

Se vi sarà un’uscita da questa situazione, ciò dipenderà per buona parte dalle dinamiche virali e, per la restante parte, dal principio postmoderno, interiorizzato anche dalle istituzioni, per cui la realtà è “costruita” – ossia posta in essere attraverso l’immaginazione – dagli umani. Come anche altri hanno osservato, vi sono ottime possibilità che la pandemia finisca non solo quando avrà smesso di uccidere in gran numero, ma quando le popolazioni avranno deciso che questa non esiste più. In tale prospettiva il fatto che potrà esservi una discrasia tra realtà (circolazione del virus) e immaginazione (comportamenti quotidiani), resterà un fatto per buona parte marginale. Questa capacità di rimozione e selezione dei pericoli è del resto qualcosa di iscritto nelle dinamiche di quel tardo capitalismo, di cui, come ci ha avvertiti per tempo Jameson, il “postmoderno” (in senso sempre lato) costituisce l’ancella ideologica. È verosimile dunque che le stesse dinamiche che hanno consentito di chiudere gli occhi dinanzi all’entità delle questioni sociali provocate dallo sviluppo potranno agevolmente intervenire anche nel caso della questione sanitaria. E, del resto, in giro per l’Europa non mancano indizi che questo è quello che già sta accadendo.     

 

* Pietro Saitta è professore associato di Sociologia generale presso l’Università degli Studi di Messina. Si occupa di disastri e questione urbana. Tra i suoi lavori The Endless Reconstruction and Modern Disasters (con Domenica Farinella. Palgrave).